mercoledì 24 agosto 2011

La “visionarietà “ nell’arte

Intervento presentato all'incontro "Arte e Follia"
5 Marzo 2011 Libreria Mondadori, Catania



   "L’arte non riproduce il visibile, piuttosto rende visibili forze che non lo sono". –
                                                                                                                                Paul Klee 

 Il linguaggio visionario è un linguaggio perduto, come cifre indecifrabili. Ma si nasconde sotto tutto ciò che noi sogniamo ogni notte. È invisibile appare ogni volta che la visione di immagini  scorre in modo significativo. Esso emerge dal trance, dalla contemplazione, dal mito e dalla follia. Questa antica immagine-lingua, altrimenti dimenticata, è ora parlata una volta di più ... ( dal Manifesto of Visionary Art,)                                                                                                             

La visionarietà è un sostantivo comune all’arte e alla psicopatologia.
Giunta alla fine di questa mia riflessione voglio concludere che tale caratteristica  in realtà appartiene anche alla vita normale così come all’arte in genere, in quella speciale accezione per la quale non c’è niente di più normale della follia.
Tradizionalmente l’arte visionaria è intimamente legata al Surrealismo: movimento nato in Francia nell’immediato dopoguerra  ad opera di Andrèe Breton. Nato come corrente letteraria, riguarda principalmente la poesia. In seguito, si estende alle arti visive, influenzando la pittura, la scultura, il cinema. Si presenta come un movimento rivoluzionario. Contesta i valori della società borghese e la cultura che li sostiene. Per questo, propone una nuova concezione della realtà e una nuova idea di bellezza.”
Avendo io una prospettiva psicologica e non quella di una studiosa d’arte,   voglio cominciare dal significato del temine, piuttosto che dall’origine storica del movimento che fa della “visionarietà” il suo manifesto.
  
Comincio dal significato del termine:
 Che ha visioni soprannaturali: un mistico
V . che soffre di allucinazioni visive
 estens. Che concepisce progetti irrealistici o immagina come vere cose che esistono solo nella sua fantasia
Chi ha visioni mistiche o allucinazioni visive.
Sognatore                                             
 Possiamo sintetizzare con il Vedere ciò che non c’è o vederlo in modo de-formato

  Nel purgatorio Dante scrive:
                                                E che la mente nostra,
                                               pellegrina più della carne,
                                              e men da pensiero presa,
                                              alle sue vision quasi è vicina

In questi versi Dante, il più visionario dei poeti di tutti i tempi, esprime al meglio l’essenza del termine, mettendo insieme l’errare della mente, molto più di quanto possa fare il corpo, quando viene meno il pensiero ( cioè la mente razionale), per avvicinarsi alle sue visioni.
Da questa premessa che circoscrive l’oggetto di questa riflessione, mi sono soffermata a pensare se intendevo parlare della  visionarietà dell’arte o nell’arte. Due preposizioni che  cambiano i termini dell’indagine, ma che è necessario tenere presente.
 Secondo una prospettiva psicologica,  l’Arte – a mio parere - è sempre visionaria (in questo caso quindi possiamo parlare di visionarietà dell’arte) in quanto non ha mai a che fare con oggetti reali, ma con oggetti mentali. Per quanto possa riferirsi alla realtà, usare mezzi materiali o riprendere fatti reali, essa non è mai copia (come sosteneva Platone)  ma, semmai, nel peggiore dei casi,  imitazione. In ogni caso è una imitazione soggettiva, vista dall’autore in modo più o meno originale o luminoso (numinoso) . In antitesi a Platone, infatti, l’Arte per Aristotele  ricrea le cose secondo una nuova dimensione e in questo senso la pone come superiore alla Storia.  L'arte tratta i fatti in modo diverso da come fa quest’ultima: mentre la storia è vincolata al particolare, l'arte assurge all'universale,  può prescindere dalla realtà, può introdurre eventi irrazionali o impossibili, ricorrere a menzogne o a finzioni. La sua superiorità rispetto alla storia sta nel fatto di poter rendere  l'impossibile o l'irrazionale  verosimile. A tal proposito  sostiene Aristotele  che "L'impossibile verisimile è da preferire al possibile non credibile".
E qui comincio ad avvicinarmi a quello che voglio dire a proposito della  visionarietà  nell’Arte :  esattamente l’oggetto di studio di questo mio breve studio.
Per tentare di esprimere questa mia indagine, farò riferimento in particolare alla pittura e alla scultura: le due arti visive per eccellenza, espressione diretta di ciò che abita la mente dell’artista, ma anche alla letteratura, arte immaginifica . Farò degli esempi, e scusate se mi servirò non solo delle manifestazioni dei grandi Artisti , ma anche di artisti minori o anche sconosciuti, ma nelle cui opere questo carattere può essere assunto come simbolo di creatività artistica, se non proprio di Arte con la a maiuscola, in modo da consentirmi di dimostrare in concreto ciò che voglio dire.
Ancora di più scusate se parto da me.
A circa 10 /12  anni, la sottoscritta che allora si dilettava con la pittura partecipando anche a mostre e vincendo anche qualche premio, dipinse a tempera un piccolo foglio intitolandolo per l’appunto La follia.
E’ uno dei pochi lavori, se non forse l’unico tra quelli che mi sono rimasti di quel passato pittorico, cui sono particolarmente legata e che , ancora oggi, è possibile vedere nel mio studio in ospedale.
Nel corso degli anni, questa piccola tempera si è mostrata al mio sguardo  come la rappresentazione più adeguata a descrivere la mia idea di follia, o forse la mia follia, anticipando di gran lunga quella che la mia mente avrebbe formulato nel tempo  attraverso gli studi  che ho fatto e l’esperienza che il mio lavoro mi ha offerto di fare.
A 10 anni quindi, il mio inconscio produsse del tutto inconsapevolmente  una visione di cui all’epoca non avevo nessuna cognizione.

Qualche anno fa mio figlio, scultore in quel periodo, oggi disegnatore e fumettista,  produsse in un calco di gesso un giovane uomo morto. La sua descrizione verbale era quella che si trattava di un giovane coinvolto in un incidente con il motorino. Il calco era prono, con macchie di sangue a terra. Quel calco, per chiunque passasse  dove era esposto, era fonte di sussulto e trasalimento, tanto era realistico. Chi conosceva l’autore non poteva non vederne le sue stesse fattezze. Solo qualche mese dopo lui stesso ebbe un incidente (in motorino) che gli sarebbe costato la frattura di tibia e  perone. Fortunatamente la visione anticipatoria che nel gesso aveva rappresentato non fu letterale, ma l’elaborazione della morte e dell’abbandono  del corpo, così come altre vicissitudini interne trovarono rappresentazione  in questo e in altri lavori successivi, mostrando che la capacità creativa  andava oltre i limiti del presente , seguendo una precisa visione interna contemporaneamente immaginaria e reale, e cogliendone anche possibili sviluppi futuri.     

Scrive Frida Kalho: "Non ho mai dipinto sogni. Ho dipinto la mia realtà

L’artista , una delle mie preferite, ebbe  come tutti sanno una vita segnata dalla malattia: le sue opere sono un’autobiografia pittorica, una sorta di diario visivo, di dimensione onirica nel quale traslocare  non solo la sofferenza che la tormentava, ma l’immagine  interna di quella sofferenza: una descrizione certamente visionaria di quanto accadeva dentro il suo corpo. La maggior parte dei suoi dipinti incorporano infatti rappresentazioni simboliche delle  proprie ferite fisiche  e psicologiche. She insisted, "I never painted dreams. I painted my own reality."
                                             Guardiamo alcune di  queste opere:……..

 E’ fuori di ogni dubbio che tali rappresentazioni , pur riferendosi alla realtà vissuta dall’autrice, siano assolutamente  visionarie, oniriche, surreali. Frida dipinge ciò che accadeva realmente nella sua esperienza di vita, addirittura dentro il suo corpo,  pur trasmutandola in  immagini che potremmo definire  perturbanti,  proprio perché capaci di rendere visibili (come sostiene Paul Klee)  esperienze interiori altrimenti invisibili. "Tenuto in casa, nascosto” è la traduzione  del termine tedesco  un-heimlich utilizzato da Freud nel suo famoso saggio  Il perturbante.  Qualcosa che pur
essendo familiare si presenta in modo inconsueto,  che sorprende, turba, o addirittura  spaventa.
C’è un altro artista , tra i miei preferiti,  lo scrittore Haruki Murakami,  che tratta la realtà come se fosse sogno,  e non per sottrarre ad essa concretezza ( come del resto fa Frida) ma al contrario per dare  ad essa maggiore  forza espressiva.  I romanzi di Haruki Murakami non sono narrazioni, sono visioni.
Lui stesso scrive di sé:
 Scrivo storie strane, bizzarre. Non so perché mi piaccia tutto ciò che è strano. In realtà, sono un uomo molto razionale. Non credo alla New Age, né alla reincarnazione, ai sogni, ai tarocchi, all’oroscopo. (…..) Ma quando scrivo, scrivo cose bizzarre. Non so perché. Più sono serio, più divento balzano e contorto

Nella fine del mondo e il paese delle meraviglie,  descrive così questo luogo inconoscibile che sta dentro ognuno di noi:
“ In fondo alla coscienza di ognuno di noi c’è un nucleo che non possiamo percepire. Nel mio caso si tratta di una città. Una città dove scorre un fiume, circondata da una alto muro di mattoni. ………Io vivo lì. Anche se quel posto non l’ho mai visto con i miei occhi, quindi non so dirti altro.”
Quel posto è il sotterraneo della nostra coscienza, la nostra coscienza onirica,  dove i fatti dell’anima diventano per Murakami vicende tra il thriller e il fantascientifico, metafore inserite nel mondo quotidiano, dove gli oggetti più consueti assolvono a funzioni psichiche e  ad elaborazioni personali e stravaganti del proprio viaggio individuativo – scrivevo in un lavoro di qualche anno fa su questo autore.  E’ così può accadere  che:

“Mi accade spesso di sognare l’Albergo del Delfino. Dal sogno si direbbe che ne faccio parte in modo stabile. La forma dell’albergo appare distorta. E’ molto lungo e stretto. Tanto lungo e stretto da sembrare, più che un albergo, un lungo ponte coperto da un tetto. Un ponte che si estende, in tutta la sua lunghezza, dall’antichità alla fine del mondo. Io ne faccio parte. Lì dentro c’è anche qualcuno che piange. E io so che piange per me. (Dance, dance,dance)

Il protagonista scivola così, insieme ai suoi lettori, in un’atmosfera surreale dove i piani di realtà e sogno si confondono e si fondono continuamente, passando con disinvoltura tra l’uno e l’altro, come il movimento verso l’alto e verso il basso di un ascensore (tema ricorrente anche in altri romanzi).

L’albergo mi comprende dentro di sé. Riesco a percepire le sue pulsazioni e il suo calore.
 Nel sogno sono una parte dell’albergo”
“ Era come se mi trovassi sul fondo del mare, oppresso dal peso schiacciante del buio. Cercai di abituare la vista all’oscurità, ma era inutile. Non era un’oscurità superficiale a cui ci si adatta dopo un po’ di tempo. Era assolutamente impenetrabile, densa come strati su strati di vernice nera: istintivamente, mi frugai nelle tasche. Nella destra avevo portafogli e portachiavi, nella sinistra la scheda per aprire la porta della mia camera, un fazzoletto e qualche spicciolo. Tutte cose perfettamente inutili al buio. Per la prima volta rimpiansi di avere smesso di fumare: adesso avrei con me l’accendino o i cerini. Ma era inutile pensarci. Provai ad allungare la mano cercando il muro. Nel buio tastai una superficie verticale , dura. Era il muro, liscio e freddo. Troppo freddo per un muro del Dolphin Hotel, dove i climatizzatori mantengono sempre una temperatura ideale. Devo riflettere con calma, pensai. RIFLETTERE CON CALMA.”

Ecco come lo scrittore racconta il senso di spaesamento, di disorientamento: esperienza psichica nella quale si perdono i consueti punti di riferimento.
Ma cosa si intende per visionarietà ?
In senso psicopatologico la visionarietà  è in qualche modo assimilabile ad una dimensione allucinatoria: vedere ciò che non c’è, oppure vedere qualcosa in modo deformato, non perfettamente aderente alla realtà. La capacità di vedere oltre il mero dato concreto infatti attiene alla mente creativa che tutti noi possediamo.  La mente creativa è quella parte, o meglio quella funzione della nostra mente, che si attiva nei sogni, anche quelli ad occhi aperti, o quando dobbiamo risolvere un problema i cui dati possono non essere necessariamente visibili, o quando intuiamo le conseguenze di un certo atto o decisione, insomma quando creiamo qualcosa che non è al momento percettibile o sensibile. In psicopatologia l’allucinazione rappresenta la creazione di un mondo altro da quello reale, ma reale per l’individuo che lo crea, in quanto significativo di una scena interna, o di una sensazione fisica che si tramuta in immagine, in visione appunto.
Ma quando si può parlare di Arte, o di processo creativo vero e proprio, distinguendo l’arte dalla non-arte?
Se la mente creativa e la capacità immaginale è presente in tutti noi cosa distingue il folle dall’artista? A meno di volere definire un po’ folli tutti gli artisti, sappiamo che i due termini sostanzialmente differiscono. L’uno è considerato “normale”, l’altro viene considerato malato. Secondo  Freud il comportamento ordinario non è altro che il risultato di un continuo processo dialettico tra la parte più selvaggia e disorganizzata del cervello, l'Es, e quella più pesata e razionale, il Super-io.
Secondo questa prospettiva, per quanto bizzarro l’artista possa essere , o fuori dalle convenzioni , tuttavia egli è un individuo che ha trovato un certo equilibrio tra queste parti,  che ha trovato una integrazione anche nel sociale, è un Io  che  gli consente  ( a suo modo) di  partecipare al mondo degli altri .( Fra l’altro dobbiamo rammentare che Freud, almeno finchè non conobbe  Dalì, non teneva in grande considerazione l’arte contemporanea, e in particolare il surrealismo). Anche se tutti conosciamo esempi di artisti il cui adattamento alla vita ordinaria è stato difficile , tuttavia la partecipazione alla dimensione collettiva è  stata in qualche modo  possibile. Anzi.
L’artista porta la sua visione  del mondo al mondo, la rende visibile , comunicabile . Se pure nell’atto artistico la struttura dell’Io scompare per dare accesso alle forze oscure dell’inconscio - creare con la parte destra del cervello - il viaggio di accesso agli  archetipi che dominano l’uomo del sottosuolo (citando Dostoevskij)  è un viaggio che generalmente ha ritorno. L’Odissea di
Omero cos’è se non il poema visionario che narra questo viaggio. Un viaggio eroico, quello di Ulisse, alle prese con  avventure e rischi di ogni genere. Lo stesso viaggio che tutti noi siamo soliti fare quando scendiamo nelle nostre oscurità, nelle nostre malattie interiori, nelle nostre ossessioni. E dalle quali non è sempre facile il tornare.  Ecco. L’artista, affronta  questo viaggio interno con una marcia in più.  Lo strumento artistico gli consente di elaborare le pressioni interne, i risucchi dell’anima, le angosce dando ad esse sostanza e voce, rappresentandole mentre o dopo averne fatto esperienza.   Le trasforma in Visioni  condivisibili con gli altri. 
Nell’artista si  attiva una forma di possessione che piuttosto che condurlo ad  espressioni psicopatologiche, lo aiutano ad esprimere la sofferenza nel prodotto artistico, capace di dare contemporaneamente linfa vitale al processo creativo  e sollievo ai tormenti della mente: l’artista   è  posseduto dal demone dell’ispirazione ( che sia  l’archetipo nettuniano del viaggio onirico,  o da quello plutoniano  come il rapimento da parte di Ade  nel mondo infero, o quello della fusione mistica con un altrove paradiasiaco) e questa possessione è anche la sua salvezza.  
A questo proposito Jung, nell’esaminare il processo creativo giunge a istituire una polarità tra simbolico e non simbolico. Di fronte all’intenzione creativa l’artista si può porre o cercando di identificarsi con essa, mettendosene a capo e volgendola e plasmandola per come intenzionalmente crede meglio per raggiungere il risultato estetico  desiderato, oppure lasciarsi da essa completamente guidare, accogliendo in lui l’opera di un “complesso autonomo” sostanzialmente estraneo alla propria intenzionalità cosciente. In questo caso l’opera sarà portatrice di contenuti simbolici estranei alla sua stessa coscienza. E’ questa la condizione psichica della visionarietà cui il linguaggio artistico dà voce. Così ne parla Jung:
è un linguaggio gravido di significati, le cui espressioni avrebbero valore di veri simboli, poiché essi esprimono nel modo migliore cose ancora sconosciute, e sono come ponti gettati verso una riva invisibile.
Se andiamo un po’ più indietro nel tempo e  pensiamo alle grandi opere dei Maestri del 400  o del 500 ,  Hieronymus Bosch per citarne uno. Non possiamo ignorare la grande visionarietà delle sue opere: sono visioni spiritualistiche, chiaramente influenzate dallo spirito del tempo e dalla concezione medievale della storia dell’uomo intrisa di religiosità, di desiderio di elevarsi a Dio. Nelle sue opere , enigmatiche ed inquietanti, si  intrecciano  motivi astrologici, alchemici e folkroristici ricchi di simboli e di allegorie rappresentative della condizione dell’uomo, della sua follia , della sua dannazione.
Guardiamone  alcune …….
                                                                    
                                                                     Bosch   ( e il soprannaturale)

Pensiamo a un altro artista dell’epoca, di poco successivo al pittore fiammingo, Bruegel.
Di lui si dice che abbia viaggiato moltissimo, anche in Italia, attraverso i vizi e le virtù degli uomini del suo tempo, delle correnti mistico - eretico , risputandole sulle tele e sulle tavole, come qualcuno efficacemente  ha detto di lui.

                                                                    Bruegel  ( l’uomo e i suoi vizi)

 E che dire della visionarietà naturalista di Arcimboldo? L’artista milanese attualmente in mostra nella sua città, coniuga nelle sue tele l’idea della brulicante commistione tra uomo natura animale, dando luogo a un senso di immediato disgusto con i suoi volti  bizzarri  , assemblaggi  tra frutti ortaggi animali, insiemi tra il  macrocosmo e il  microcosmo, come nelle sue celebri "nature morte" reversibili.
                                                                 Arcimboldo ( uomo e natura)

Può affermarsi che questi lavori siano meno visionari di quelli cui tradizionalmente si attribuisce questo termine?
E’ questa la forma di arte visionaria cui Jung fa riferimento : una  condizione  cui l’artista si piega incondizionatamente abbandonando le parti razionali, e le intenzionalità coscienti, per sottomettersi  alle  pressioni  di contenuti la cui essenza gli  è estranea e sembra provenire da un remotissimo sfondo di epoche preumane  o da sovraumani mondi di luce o di tenebra.
Sappiamo che per  Jung l’inconscio non è solo il luogo del rimosso personale, ma anche il luogo dove si sedimenta l’esperienza collettiva.  Il processo artistico si fa allora messaggero di una visione   che  origina tra i demoni del sottosuolo , dove abitano gli archetipi collettivi della coscienza arcaica presente in tutti noi, dove hanno sede i mostri , le ombre.  E’a questa dimensione che il
processo creativo attinge per trasformare i suoi contenuti in espressione artistica, operazione trasformativa e salvifica,  che viceversa può portare ad altri stati malati, dai quali non sempre c’è ritorno. Solo l’arte infatti dà quella possibilità di transitare attraverso essi, di varcarne la soglia, ma di poterne fare ritorno.
E’ questo il punto nevralgico – direi – per distinguere la follia artistica dalla follia del DSM IV , la visionarietà in senso artistico dalla visionarietà in senso psicopatologico,  pur essendo fondamentalmente molto vicine.
La follia creativa non è sintomo di malattia,  pur potendo affondare nella malattia, cioè in quelli stati di coscienza alterati dalla malattia, o dalle droghe, o dalle esperienze profonde: attinge  al  Sé e alla propria  dimensione nascosta , ma contemporaneamente la organizza, la orienta, la esibisce.
E così facendo li trascende. L’opera aggiusta, riadatta,  traduce in una forma ciò che è informe, la rende condivisibile, aderendo a un’altra sua  funzione essenziale: quella sociale, educativa, trasformativa anche per chi la fruisce.
Perché è nella capacità dell’opera visionaria di attualizzare il contatto con l’archetipo  anche in chi osserva, o legge, o interpreta,   determinando una trasformazione della coscienza. Non si tratta più di sola  contemplazione estetica, ma di effetto estraniante, perturbante , che  diventa provocazione, disgusto a volte, in ogni caso di  scuotimento . L’arte è insomma uno strumento di conoscenza di sé e dell’altro, per sé e per l’altro, che va ben oltre la sfera  del sapere razionale , ma che si nutre di forze e saperi che fino a quel momento ci sono ignoti.
E’ evidente che questi viaggi e queste visioni risentono dello spirito del tempo, dei temi che dominano la cultura cui si appartiene. Diventano sogni collettivi nei quali si legge la storia dell’epoca cui prende origine, aprendo così una porta sugli universali.
La dimensione artistica , con la sua capacità visionaria di rappresentare il mondo è il luogo dove motivi personali e archetipi collettivi si fondono per dare corpo e visibilità al mondo da cui prende origine. Non posso non citare qui , per completare questa vetrina di artisti visionari
                                                          Hans Rudolf Giger  ( vedi la macchina procreatrice ad es.)
                                                          L’uomo della tkenè
le cui visioni aliene e oniriche sono una rappresentazione del proprio immaginario di morte  , di orrore, di situazioni infernali, inserito  nel mondo della tecnica tanto da diventare paradossalmente iperrealistico, nel senso che riesce a condurre i temi della contemporaneità fino all’estremo limite.
Come sostiene Heghel” l’arte è  “l’apparire sensibile dell’idea” essendo l’esperienza artistica
essenzialmente mediazione e conciliazione tra spirito e materia, universale e particolare, infinito e finito, pensiero e sensibilità.
E’ un occhio  (il terzo forse) che si apre sull’inaccessibile,  che ci dà accesso alla dimensione dello spirito, una possibilità di vedere ciò che non si vede con l’immediatezza dei sensi. Per richiamarmi al mio interrogativo iniziale posso dire dunque che è dell’Arte la capacità di vedere oltre.
Torniamo all’oggi e allo scrittore Murakami e al suo viaggio in questa città sconosciuta alla fine del mondo, ai limiti della nostra soggettività :

Voglio solo conoscere meglio questo posto.- scrive - Che forma ha, che storia ha, chi ci vive e in che modo, tutto. Vorrei sapere cos’è che mi dà gli ordini, che mi fa muovere come una marionetta. E anche cosa c’è al di là.

Con  questo romanzo (  forse il più visionario di questo autore) , il più difficile da decifrare, ma il più ricco di immagini e di contenuti simbolici Murakami ci fa vivere  il  viaggio pericoloso  ma necessario   per ricongiungersi con la propria Ombra, inoltrandosi al di là di quella muraglia altissima di paure e convinzioni  che ci mantengono nell’ordinario e del noto, scissi dalla nostra parte più profonda . Un viaggio per trovare il paese delle meraviglie  che l’integrazione di tutti gli aspetti psichici può dare (alla fine del mondo): la totalità psichica, il  Sé.
E’una strada  difficile da percorrere, che l’Arte  aiuta a fare.

Adesso lei si sta preparando  a spostarsi in un altro mondo.- continua per bocca di un enigmatico Maestro-    Per adattarsi al quale sta effettuando dei cambiamenti progressivi nel mondo che vede adesso. Questa è la percezione. La percezione è in grado di cambiare la realtà. Ma a livello fenomenologico, il mondo costituisce soltanto una fra le illimitate possibilità…
E più in là……
Come si esce da questo sotterraneo?
Non è una cosa semplice  -risponde ancora - bisogna passare di fianco al covo degli Invisibili.
Se la sente?

                                                                                             Lilia Di Rosa                                   


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