giovedì 13 dicembre 2012

Ancora sui disturbi alimentari


La metafora alimentare investe e descrive ogni aspetto della vita dell’uomo e della cultura cui appartiene, nonché dell’importanza attribuita in tutte le culture alla corporeità e alle sue forme. Pensiamo a quante connotazioni ha il termine carnale (da l’essere in carne, al passionale, sensoriale, ecc), o sentimenti quali il disgusto, la nausea, ecc. Per non parlare della metafora del peso che allude al peso del corpo quanto a quello dell’importanza, o a concetti quali amaro, dolce, acido, disgustoso, che tratteggiano i caratteri delle persone attraverso il sapore cui rimandano. Vorrei soffermarmi sul termine disgusto: forse la sensazione tra le più sgradevoli che si possa provare di fronte a cibi, persone, comportamenti, lungo un continuum di sensazioni che provocano nausea, disapprovazione estrema, fino all’orrore e al vomito: sintomo corporeo dell’ estremo rifiuto. L’incorporazione infatti non risiede certamente solo nella bocca, ma in quell’ assunzione di tutto ciò che noi portiamo dentro attraverso gli  organi di senso: vista, udito, olfatto, sesso.  Pensiamo alla nausea gravidica come esperienza tutta femminile di  disgusto interiore dovuto alla necessità di incorporare dentro di sè una nuova vita , segnale di ambivalenza estrema tra ciò che si avverte  come estraneo pur essendo proprio. Tutto quello che appartiene al mondo esterno è accuratamente selezionato non solo dagli organi di senso ma dalla nostra stessa  struttura di coscienza che ci indica cosa portare dentro, assimilare, elaborare , fare nostro, e quello da respingere , rigurgitare, vomitare, rigettare, pena  la rottura del nostro equilibrio. Perché non solo il cibo, ma certamente insieme al cibo, tutto quello che noi incorporiamo inevitabilmente ci trasforma, si sedimenta, si accumula nel nostro corpo come nella nostra mente e nella nostra coscienza. Il cibo quindi non è mai soltanto materia più o meno ricca di sostanze nutritive, ma è atmosfera affettiva, espressione di istinti profondi, armonia con la natura e con tutto ciò che ci circonda, modificazione del nostro stato di coscienza.

Se tale selezione era prima determinata anche da un sistema  di regole dettate culturalmente ( abitudini familiari, rispetto delle festività,  precetti religiosi, ecc.) contenendo l’individuo entro schemi normativi condivisi, la generale anomia della società contemporanea ha sviluppato  regole/non regole  derivanti dalla necessità di compensare l’eccesso di edonismo, opulenza, controllo estetico entro il quale noi viviamo,  lasciando alla scelta individuale la selezione di  cosa portare dentro e come.

Ne risulta una molteplicità di regolamenti ideologizzati  che sviluppano  atteggiamenti di stigmatizzazione di tutto ciò che può essere dannoso alla salute ( a partire dai grassi , un tempo simbolo di ricchezza e di abbondanza non solo alimentare) . Inoltre , l’odierna “medicalizzazione” della vita è entrata prepotentemente anche nella definizione dei regimi alimentari  più adatti per evitare malattie di vario genere, alimentando l’ossessione del mangiare sano come punto di partenza per un vivere duraturo e felice. Viene così a diffondersi  una drastica eliminazione di alimenti ritenuti dannosi,  ancora più dannosi in quanto associati a concetti e realtà che non si vorrebbero mai  assorbire: l’idea della malattia, della morte, dell’infezione, del contagio. In una modernità che  anela “ a un corpo trionfante, sano giovane e abbronzato, l’individuo esercita su di esso un controllo ossessivo”  , come sosteneva Le Breton già nel 1990. Controllo che si è concentrato sul cibo come simbolo di tutto quello che del mondo viene portato dentro attraverso i suoi canali  e i suoi orefizi (la bocca in particolare) nel tentativo di contenere l’ansia che lo affligge.

Si sviluppa così e si diffonde un’altra patologia che, per quanto ancora poco conosciuta, occupa un posto ragguardevole tra i disturbi alimentari, l’ortoressia, (dal greco orthos -corretto e orexis –appetito ) : una forma di attenzione abnorme alle regole alimentari dovuta alla paura di ingrassare o di ammalarsi attraverso cibi contaminati o impuri. Una vera e propria “mania nutrizionale”, che nasconde l’ ossessione di alimentarsi in modo sano per  mantenere la propria salute. Il cibo , o meglio il pensiero del cibo ( cosa mangiare, dove acquistarlo, attenzionare le reti di distribuzione  dei prodotti, ecc) finisce per  invadere la vita di chi ne è vittima, allontanandolo sempre più non soltanto dal piacere e dal gusto del cibo , ma anche da tutte quelle situazioni conviviali che non può controllare direttamente, contribuendo ad un isolamento sociale entro il quale l’individuo crede di proteggersi, rifiutando di fatto la relazione con il mondo che lo circonda e interrompendo drasticamente la comunicazione simbolica che attraverso il cibo ogni comunità ha da sempre elaborato. A livello collettivo, la numerosità e la grande variabilità di tali comportamenti prescrittivi e di drastica riduzione di alcuni alimenti, sembrano simbolizzare il tentativo di riequilibrare, per non dire “espiare” , la colpa che la  società  occidentale, opulenta e bulimica , vive nei confronti  di quella parte del mondo che ancora vive nella miseria e nella fame.

Bibliografia:
D.Le Breton: Antropologia del corpo e modernità  Giuffrè editore
G.Nicolosi:   Lost food.  Comunicazione e cibo nella società ortoressica   Prima edizion,Catania
D.Zappalà    Cibo, corpo e società   Tesi di Laurea Facoltà Scienze Politiche di Catania AA 2008/2009




venerdì 30 novembre 2012

Il corpo in pezzi (tra medicina e arte)

 Ecco l'intervento che ho portato oggi all'interno dell'evento
 STOP allo 048 degli Oggetti, Mostra Internazionale d'arte contemporanea sul tema del riciclo.



Mettere insieme arte e malattia in un contenitore che ha come nucleo fondamentale il tema del riciclo non è stato facile, ma è certamente stato molto invitante per chi, come me, ha dedicato la maggior parte della propria vita professionale in un ospedale senza mai rinunziare alla passione per l’arte . Mettendo insieme queste due anime, ho provato a tracciare le mie considerazioni a proposito di un argomento che credo oggi non si possa e non si debba ignorare.

 Non solo l’arte infatti, ma anche la medicina, è oggi in una fase di “mutazione” in quanto ha a che fare con la tecnologia e con la visione che la stessa ha prodotto nella vita dell’Uomo. L’influenza che la tecnica esercita nella nostra esistenza è oggi alla portata di tutti anche se non sempre è accompagnata da una riflessione critica altrettanto diffusa. Senza volere in alcun modo utilizzare gli schemi di giudizio propri dell’etica, né le categorie  dell’estetica,  le considerazioni che porto qui, si muovono  dalla osservazione di come la tecnica abbia modificato la concezione della Vita  in vista della funzione piuttosto che dello scopo concependo pertanto un organismo (sociale, collettivo, individuale) come una macchina.  Le macchine infatti hanno come scopo il loro funzionamento, l’efficacia, la produttività, ma sono cieche al senso, che ha a che fare con il bisogno di attribuire significato alle esperienze  e a cercarne  il perché. In una società fondata sulla funzionalità, la macchina diventa la protagonista prima e i valori cui fa  riferimento sempre più si discostano dalle emozioni e dai sentimenti , allargando la scissione dell’uomo entro se stesso.

Scrive Umberto Galimberti nel suo “ L’uomo ai tempi della tekne”: In realtà la tecnica ha sostituito la natura che ci circonda e costituisce oggi l'ambiente nel quale viviamo. Noi però ci muoviamo nell'ambiente-tecnica con i tratti tipici dell'uomo pre-tecnologico che agiva in vista di scopi, con un bagaglio di idee proprie e di sentimenti in cui si riconosceva. Ma la tecnica non tende a uno scopo, non apre scenari di salvezza, non svela verità, la tecnica "funziona".

Nella società tecnologica ci lasciamo guidare dalla ragione che scaturisce dal “si può fare” e quindi dal “si deve fare”, mettendo spesso da parte il senso di quel potersi fare. E’ questo l’aspetto più inquietante dell’uomo tecnologico, soprattutto in ambiti come la medicina che, malgrado il suo indubbio progresso, sconfina nella visione dell’uomo- oggetto, dell’uomo- macchina fatto di pezzi da aggiustare o da sostituire, a scapito della sua integrità.

In un contesto come quello suggerito da questo evento, il riciclo,  che è “l’arte” di riutilizzare gli scarti per dare agli oggetti  nuova vita, ri-creando un nuovo oggetto, come possiamo intendere l’attuale “arte” medica che , nel considerare il corpo come aggregato di pezzi, come macchina funzionale  a vivere il più a lungo possibile, non si chiede abbastanza quale sarà la qualità di questa ri-creazione? Alla stregua di un oggetto che è bene conservare  a lungo  dandogli nuova forma, il corpo-oggetto della tecnica , luogo assoluto della sua soggettività, come potrà reagire (emotivamente, psicologicamente) a questa  nuova forma?

Questi sono gli interrogativi che mi sono posta nel preparare questo incontro, la cui tematica parte dalla considerazione che la malattia è disfunzionale per una società che vorrebbe essere immune dal male, e che pertanto la rifiuta, la scarta,  in quanto contrasta con i valori dell’efficienza e della produttività che gli sono propri.

Fondare una ecologia della salute, significa quindi non dimenticare che l’uomo appartiene alla natura (in quanto corpo) e allo spirito ( in quanto mente )  e non alla tecnica, e che quest’ultima ha senso solo nella misura in cui aiuti l’uomo e non lo domini con  possibilità  spesso  distruttive  e non ri.creative di  quell’ambiente interiore nel quale l’Uomo si riconosce.

Voglio riflettere su alcuni esempi (tratti dalla rete) che fanno riferimento alla concezione dell’uomo come aggregato di pezzi e alle sue conseguenze.

“Un chirurgo e altre quattro persone sono comparse  davanti alla corte nel centro della Cina con l'accusa di aver aiutato un ragazzo a vendere un rene per acquistare un iPhone e un iPad 2. Stando a quanto riportato oggi dal China Daily, Wang Shangkun, 18 anni, si trova oggi in gravi condizioni di salute dopo essersi sottoposto lo scorso anno a un espianto illegale……..
..Il rene è stato venduto per 150.00 yen”


 “Ha donato al figlio prima il midollo osseo e poi, dopo pochi anni, un rene. Salvandogli la vita per due volte. Protagonista una mamma di 55 anni .  Il figlio, grazie al midollo ricevuto dalla madre, nel corso degli anni acquisisce le caratteristiche genetiche del genitore per il proprio sangue. Adesso il paziente ha ricevuto un rene dalla madre, ed il sistema immunitario del ricevente, che in realtà è quello derivato dalla madre con il trapianto di midollo osseo, non riconosce come diverso il rene trapiantato. Questo gli consentirà di evitare la terapia antirigetto con tutti i rischi che comporta.”

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“Vuole vendere un rene per pagare le bollette. L'annuncio shock è di una 65enne di Roccastrada (Grosseto),  La donna, vedova e invalida al 90%, non sa come pagare le bollette e neppure come mangiare.


Emerge chiaramente la visione di  chi  tratta il proprio corpo ( o parti di esso) come merce di scambio, come oggetto da vendere, come mezzo per raggiungere scopi apparentemente più appetibili. È chiaro che non mi riferisco alla madre che salva il figlio, ma al ragazzo che vende il rene per  l’iPhone. E’ proprio questa la differenza che dà un valore completamente diverso alle due azioni di fatto identiche : lo scopo, il “ senso” di una stessa azione. E che dire della donna  costretta dalla necessità  a vendere il proprio rene per pagare le bollette? Questi  esempi, pur differendo nelle finalità,  appartengono tutte allo stesso modo di intendere il  corpo. Se l’ideologia che sta alla base è quella del corpo –oggetto, riciclabile o riproducibile, la scienza e la tecnologia diventano strumenti di distruzione  e non di progresso. Prendo come esempi due film recenti che aprono scenari possibili ma terribilmente inquietanti: mi riferisco a “Non lasciarmi”di Mark Romanek dal libro del giapponese Yshiguro e “La pelle che abito” di Pedro Almodovar. In entrambi il corpo viene  “disumanizzato” , svestito e svuotato delle sue emozioni e dei suoi sentimenti,  per divenire laboratorio di ricerca, di onnipotenza, di delirio. Il corpo dunque diventa un prodotto della cultura dominante ossessionata dalla bellezza, giovinezza, dalla quantità piuttosto che dalla qualità. Dalla medicina estetica che manipola, altera e plastifica la nostra immagine, alla lotta alle malattie, all’accanimento terapeutico per allungare la vita, la medicina odierna sembra trattare un uomo senza Anima, alla ricerca  dell’uomo perfetto, senza difetti né rughe, nella presunzione di potere sconfiggere la vecchiaia e la morte. Sembra questo il cancro della nostra società, incapace di rispettare i cicli naturali, i passaggi obbligati. Scrive  Umberto Galimberti: “ La scienza è per noi ormai il reale. Il suo punto di vista ….col suo sguardo anatomico che lo seziona (il corpo) come si seziona qualsiasi oggetto, ci è divenuto così familiare che oggi ciascuno di noi non fa alcuna fatica a rinunciare  alla propria esperienza ( il corpo vissuto) e a svalutare il proprio punto di vista sul corpo, per adottare il punto di vista della scienza.”

In realtà c’è una grande differenza tra il corpo vissuto (leibe) e il corpo della scienza (korper): il primo è il corpo che appartiene al mondo della vita, è soggettivo e fondato sul sentire: il secondo è quello che appartiene al mondo della scienza, è oggettivo e astratto. La diffusione del cosiddetto pensiero scientifico e l’adozione acritica del suo punto di vista, ci ha espropriato dal corpo e dalla nostra soggettività che sempre più rimane ai margini  sia quando trattiamo il mali interni  (classificati in sintomi ) che quelli esterni,  sempre facenti riferimento ad un modello, socialmente imposto. Il corpo finisce per appartenere più agli altri che a noi stessi: alla medicina, alla cultura, all’estetica, alle nosografie, alle classificazioni. Questo corpo estraneo, manipolabile e modificabile, diventa vendibile , come  qualunque cosa. Diventa pezzo da eliminare, diventa corpo- spazzatura…

Guardiamo queste due scene ……


Se buttare via un oggetto è dichiararlo a morte, e il suo riutilizzo auspicabile e fonte di creatività e innovazione, trasporre questo in medicina e al corpo umano è molto pericoloso. Il corpo è soggetto, non oggetto. Noi siamo il nostro corpo, e non abbiamo un corpo. La nostra  soggettività consiste nella fondamentale unità tra la nostra identità corporea e quello che attraverso essa esperiamo. Anche la malattia è un’esperienza, a volte anche necessaria, non soltanto distruttiva o inutile.

Attraverso la malattia noi scopriamo altre parti di noi, risorse spesso insospettate, capacità che non pensavamo di avere. Non è un elogio alla malattia, ma l’accettazione della sua esistenza che non può essere eliminata del tutto malgrado i miglioramenti  e i progressi della scienza. E’ più pericoloso e illusorio credere che si possa eliminare la malattia e la morte che accettare la sua realtà, conviverci, imparare da essa , piuttosto che rimuoverla o ignorarla o, al contrario, rifiutarla.

Tra i rifiuti della nostra società, c’è certamente la malattia. Pensiamo a quanto ancora oggi sia difficile parlare della infezione da HIV. La sigla si associa a una altra terribile verità:  l’Aids. Per chi ha lavorato con questa realtà sa bene che il tabù che l’accompagna è ancora fortemente presente malgrado i progressi che la scienza ha fatto per contenerla, per evitare l’epidemia, quella che in altri paesi poveri è ancora una piaga sociale enorme. Ma non è ancora del tutto esaurito il contagio emotivo , la reazione di intolleranza che ancora suscita. Ancora oggi non è facile trovare chi tranquillamente dichiari questa malattia. Dai tempi del famoso film Philadelphia, la sigla HIV rimanda a quella che ancora viene considerata la “immondezza” sociale, la monnezza da non considerare come parte di noi, ma da scartare, da evitare . I pregiudizi che l’accompagnano sono ancora enormi, e chi vive la realtà Aids tace, si nasconde, se ne vergogna. Ma parliamo dello 048: esenzione ticket dell’altro grande tabù,  il cancro. Si, certamente rispetto alle metafore di una volta ( brutto male, male oscuro, lunga malattia….ecc.) oggi se ne parla più chiaramente e in termini scientifici ( melanoma, carcinoma ecc ).
Ma  resiste ancora una sorta di velo , di riserbo, quasi fosse una vergogna o una colpa che inesorabilmente viene associata alla morte, o perlomeno alla possibilità della morte.  In questa nostra società la Morte è la verità più rigettata. Il tentativo di rimuoverla è lo sforzo collettivo più accanito ed inutile. E’ il vero cancro della nostra società. Viviamo nell’illusione di eliminarla, o almeno di posticiparla il più possibile attraverso tutto quello che la tecnologia medica ci mette a disposizione, macchine, nutrizioni artificiali, sostituzioni di valvole, organi, arti meccanici. In un mondo che tende al controllo, la realtà morte genera un’ansia insopportabile, un’angoscia malamente tenuta a bada, che esplode in attacchi di panico,depressioni, voragini vertiginose entro il quale il nostro essere si perde, si disorienta, si smarrisce. La Morte è una realtà che la società moderna non accetta , non inserisce nel suo “programma” di vita, non entra nella educazione. E’ una realtà della quale disfarsi. Invece di dargli un senso ( religioso, filosofico, psicologico) la Morte è stata svestita di ogni significato che per l’uomo costituisce sempre un valore, un sostegno, una ragione. La sua rimozione l’ha resa più terribile, e quando accade, lascia oggi più sgomenti, svuotati,  come se la Vita ci avesse traditi. La morte viene vista come un “incidente” del percorso  ideale o razionale o sanitario, o “ come un accidente  contro cui la vita è andata a cozzare” (Galimberti pag.98  Il corpo).

In questa visione che oggi rifiuta il senso esistenziale della vita e quindi della sua conclusione, bisogna recuperare il significato e non solo la ragione clinica della malattia e della morte. Uso ancora  le parole di Galimberti:

“Non si muore per usura organica, ma perché la morte è immanente alla vita; non sopraggiunge come accidente possibile, ma forma con la vita la stessa trama che la costituisce e la distrugge.”

Il rifiuto ideologico   della malattia e della sofferenza che sottosta alla cultura contemporanea, ci rende di fatto più vulnerabili e più fragili, non ci educa a sostenere i momenti difficili della vita,  ma nutre in noi la pretesa che il guasto si possa e si debba aggiustare, che i mezzi disponibili siano sempre necessariamente utilizzabili e che la medicina  sia il luogo della delega  e non della cura. Dietro questa “salute “ a tutti i costi, dietro a questa rimozione collettiva del dolore e della morte, come anche della sua spettacolarizzazione,  si nasconde la vera “malattia” della modernità, la sua finzione e la sua nevrosi.

A questo proposito , e per concludere,  vorrei fare cenno all’opera del dr.Gunther von Hagens : artista austriaco , medico anatomopatologo  che utilizza i corpi umani “plastinati” per far riflettere sui temi della morte e della salute. La tecnica della “plastinazione”, inventata e brevettata da von Hagens, permette di conservare tessuti e organi del corpo umano, sostituendo ai liquidi corporei polimeri di silicone. In una recente mostra l’anno scorso a Roma sono stati presentati   più di 200 organi e sezioni insieme a 20 corpi umani interi plastinati, lasciati al dottore “in donazione” da altrettanti individui ( pare che siano 13 mila in tutto il mondo questi donatori di corpo).  Il titolo della mostra   Body Worlds    che certamente  fa discutere  è forse ancora una volta un modo per indurre a destinare il proprio corpo all’immortalità attraverso la trasformazione (tecnica) delle proprie parti anatomiche in opera d’arte. Sul valore artistico di tali opere non mi pronunzio. Mi induce a pensare che chi ne ha fatto donazione all’artista-medico, ha certamente vissuto una fantasia di eternizzazione, un tempo affidata alla religione, oggi affidata alla tecnica.
In una intervista fatta all’autore sul senso delle sue “creazioni” gli è stato chiesto

Lei farebbe plastinare il suo corpo?

Naturalmente! Cosa potrebbe succedermi di meglio che continuare a vivere dopo la morte? Il mio corpo contribuirebbe agli studi sull’anatomia, cosa che io ho fatto tutta la vita.

domenica 18 novembre 2012

L'identità maschile e le sue trasformazioni


Voglio segnalare due film che ci raccontano la difficoltà di vivere i sentimenti  e, di contro, l’esaltazione del corpo e della sua potenza come strumento per difendersi dalla fragilità che la dimensione emotiva comporta.  In entrambi la scissione è raffigurata dalla relazione con una donna, ambedue portatrici  di una femminilità ferita  che, nel gioco degli opposti, aiutano il protagonista a svolgere un percorso di trasformazione della coscienza e della propria identità maschile.




Un sapore di ruggine e ossa , 2012 Jacques Audiard.

Siamo in Francia, sulla costa di Antibes. Un giovane uomo cammina accanto ad un bambino. Sono evidentemente soli e senza soldi, e il bambino ha fame. Lui ha una grande risorsa: un corpo solido e forte che usa senza scrupoli  per qualunque cosa  possa essere utile, dal fare soldi al dare piacere.

Alì non ha emozioni, non ha empatia : solo impellenze istintive, pulsioni e necessità personali.  A modo suo ama il suo bambino, ma non si cura dei suoi bisogni, non sa come educarlo e spesso è violento con lui. La madre è un argomento tabù: di lei si sa solo che non c’è.

Un incontro fortuito con una donna dopo una rissa nel locale notturno dove fa il buttafuori,  lo introduce  lentamente in una dimensione nuova . Stephanie è bella, sicura di sé, fa un lavoro che la diverte e la gratifica. Basta un attimo perché da questa condizione se ne trovi in un’altra, molto diversa, irreversibile.

E’ nella terribile e disperata menomazione in cui Stephanie si trova, che la semplicità istintiva e senza fronzoli di Alì riporta la donna a misurarsi di nuovo con la vita. Anche se la “disponibilità “ di Alì sembra quella di una macchina ben funzionante, il suo aiuto è sincero pur se molto diverso da ciò che Stephanie si attende. Il regista mette a nudo la diversità dei due personaggi, ne rivela la distanza , ma ne scopre i passaggi che li avvicinano lungo un processo che Alì compie senza consapevolezza ma che delinea l’uomo nuovo, capace di “sentire”.  E’ un’opera di trasmutazione : dal piombo in oro ,  dove la corporeità, sede degli aspetti più animaleschi, si assottiglia nella dimensione psichica. Un percorso di individuazione  che come già in Shame segue le vicissitudini di un grande male interiore, evitato, rimosso, fino all’inevitabile consegnarsi ad esso e da questo , forse, ad integrarlo nella coscienza.

 
Shame, 2011 Steve McQueen

 
Brandon è un uomo bello, attraente, che ha chiuso dietro una impenetrabile corazza la disponibilità ad aprirsi agli altri se non attraverso l’ ossessivo e meccanico godimento sessuale , che più che all’incontro mira alla liberazione da una tensione insopportabile.

In  questa dimensione emotivamente  fredda , come la casa che abita,  inaccessibile allo scambio e alla intimità dell’Anima, Brandon vive solitario,  ossessivamente dominato dalla necessità della performance sessuale , lo spazio mentale costantemente occupato dalla presenza reale o immaginaria  di amplessi bulimici quanto emotivamente vuoti ed anonimi.

 Riviste pornografiche, come  programmi interattivi,  cercano di riempire i vuoti di una mancanza interiore  cui non è data possibilità di esprimersi,  ma solo di esibirsi  davanti agli  ipotetici spettatori di un palcoscenico immenso e indifferente come quello di una metropoli.

L’incontro, disperatamente supplicato da una voce senza nome alla segreteria telefonica, si traduce in muto grido nella  sorella, il suo opposto: un femminile fragile e vulnerabile, costantemente in cerca di una carezza e di un coinvolgimento emotivo altrettanto pericoloso di quanto non sia la negazione e il rigetto del fratello , e  la cui vicinanza può solo generare in quest’ultimo una angoscia da cui è sempre più impossibile fuggire, ma solo rinforzarne le difese, ingigantirne le ossessioni. Sullo sfondo di una originaria ferita, di cui entrambi sono stati protagonisti, Sissi flagella il proprio corpo tanto quanto Brandon ossessivamente se ne prende  cura, pur rimanendo entrambi vittime di un’ unica e certamente disastrosa esperienza affettiva. Sulle note ridondanti dei Concerti branderburghesi  di S.Bach, la tragedia di Brandon cresce come i suoi tentativi di scongiurarla, riportandone sul volto sempre più segnato l’implacabile tormento.

Nell’ultima scena, quando il rituale ossessivo ritorna nelle fattezze di una nuova e seducente avventura erotica, gli occhi infossati del protagonista ne scorgono già il precipizio che dietro l’impulso a seguirla, lo aspetta.

 

sabato 27 ottobre 2012

La Vita in ospedale e l'Anima collettiva

L'ospedale è un mondo che riproduce le stesse leggi dell'universo. Come ogni altro organismo vivente è regolato da un Ordine che è continuamente sottoposto alle variazioni del Caso e pertanto in una mutazione continua. Ogni giorno chi vi lavora è alle prese con la malattia, la morte, la sofferenza. Ma anche la nascita, i risvegli, le esperienze felici che rendono il lavoro di ognuno di noi tollerabile e meno pesante. Ma dentro un organismo sociale non ci sono solo lavoratori, non solo medici o infermieri o dirigenti, ma uomini e donne, madri e figli, nonni, fratelli amici. Nessuno è immune dagli stessi dolori dei pazienti che cura; nessuno è protetto di fronte alle intemperanze del caso.
E' successo ieri. Tra i tanti giovani più o meno fortunati che arrivano nelle nostre corsie, alcuni non ce la fanno. E' toccato al figlio di un collega, di un medico esperto, di un amico sincero. Non è riuscito nemmeno a provare di salvare il suo ragazzo. Eppure lo ha fatto tante volte.
Il suo ragazzo aveva venti anni. Come accade ogni volta che muore un giovane uomo, la tristezza e il lutto ci invade. Poteva accadere a chiunque di noi, ma è successo a lui. In un ospedale, dove le storie di vita e di morte si intrecciano ogni momento, e altrettanto rapidamente si sciolgono, oggi è accaduto tra noi. L'organismo ha un sussulto,  si ferma. Non basta più nè l'impegno, nè la naturale rimozione dietro i nostri camici. Adesso tocca a noi, a una grande famiglia in pena, a un medico che è ora  un padre avvolto nel suo dolore. E' stato il pianto di un'unica Anima oggi a dare addio a questo ragazzo, era il figlio di tutti noi.
Un silenzio irreale ha inondato l'aria. Una tristezza senza precedenti, una sentimento di dolorosa comunanza . Ancora una volta la ruota ha fatto il suo giro, sfiorandoci da vicino.
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domenica 21 ottobre 2012

L'Altro in noi



Premessa

Molti anni fa, in occasione di un convegno, sono stata invitata a trattare il tema dei trapianti sotto il profilo psicologico.
Pur essendo passati più di dieci anni, considero ancora quel lavoro significativo. La possibilità di effettuare un trapianto d’organi è tecnicamente sempre più facile e socialmente sempre più accettato. Ma rimane sempre da comprendere l’atteggiamento personale, spesso problematico e contraddittorio, di chi compie tale scelta e la complessità di reazioni che essa genera in chi si trova nelle condizioni di ospitare dentro di Sé una parte estranea. Se oggi la medicina si propone sempre più come la scienza della “frammentazione” , non si può trascurare il fatto che il sentimento di individualità ( nel senso di in-dividuo-non diviso) sia intensamente e profondamente scovolto da una esperienza del genere. E’ necessario accettare  molte ansie, interrogativi e angosce di ogni ordine,  per accettare veramente dentro di sè una parte corporea che era appartenuta ad un altro.
Per parlarne ho preso in prestito due storie vere e ho intitolato il mio intervento “L’altro in noi”.

 L’esperienza di un trapianto , e in particolare del trapianto del cuore, organo centrale e fondamentale per la sopravvivenza, è un’esperienza assai complessa in quanto coinvolge più piani dell’esistenza e quindi più ambiti disciplinari, articolandosi ed declinandosi tra fisico e psichico, etico e religioso, scientifico e spirituale. Ma, prima ancora di essere della scienza, della medicina o del progresso, essa è primariamente una vicenda umana, densa di contrasti, speranze, paure, entro la quale la vita e la morte si sfiorano e si  intrecciano e dove l’Io e l’Altro perdono i propri confini, talora anche il loro significato. E’ proprio in questa zona di frontiera, zona d’ombra, zona incerta e indefinita che la psicologia può dare il proprio contributo in quanto capace di penetrare laddove neanche il bisturi più sofisticato può penetrare.
Per farlo, mi servirò dei racconti autobiografici di due persone che hanno attraversato questa esperienza e che, scrivendo, hanno voluto condividere con gli altri le loro angosce, i loro dubbi nell’ attraversamento di questa zona di frontiera dove la vita e la morte diventano vicinissime, divise solo da un sottilissimo velo: Cristina Bono con il suo “Con il cuore in sospeso” Bollati Boringhieri e il filosofo Jean-Luc Nancy con “l’Intruso” Cronopio.
Entrambe le narrazioni, in modo molto diverso, sono la testimonianza di questa complessità: la prima, un diario limpido e avvincente di quella che viene definita una rinascita attraverso un percorso irto di prove dure e difficoltà. L’altra, una sorta di “biografia filosofica” nella quale l’autore si interroga sul senso di tale scelta e sulla presenza dell’intruso in noi.
Impossessandomi un po’ delle loro storie ho potuto meglio entrare nei pensieri, nei sentimenti, nelle immagini che accompagnano chi decide di sottoporsi ad un trapianto, di coglierne l’intensità emotiva, la conflittualità esplicita o latente, la sofferenza che essa comporta: è una scelta che tocca inevitabilmente diversi aspetti, considerazioni diverse, spesso impossibili da liquidarsi con un sì o con un no, in ogni caso difficili da ricomporre in un’ unica risoluzione. Ognuno infine cercherà di darvi una risposta il più possibile unitaria, che non comporti una disgregazione della propria personalità e che tenga conto non solo delle necessità del corpo, ma anche delle necessità dell’anima, intesa come l’insieme di ciò che ci orienta, ci spinge, ci agita. Ciò che appunto abita e anima  il nostro corpo.

 LA SCELTA

Scrive Jean-Luc Nancy: E’ inutile il dibattito tra chi ritiene che il trapianto sia un’avventura metafisica e chi lo considera una prestazione tecnica: esso è inevitabilmente entrambe le cose, l’una nell’altra.
Ogni trapianto è infatti l’avventura di un IO tra sé e l’altro che la tecnica moderna ha reso possibile
all’interno di un contesto sociale e culturale che ritiene doveroso andare oltre i limiti imposti dalla natura e oltre il tempo che la stessa  ci ha assegnato: un contesto dove le scoperte scientifiche hanno saputo scavalcare certi confini un tempo assolutamente invalicabili in quanto fondamentalmente sacri. Ma tutto questo comporta innanzi tutto una scelta, o meglio ancora  un’insieme di scelte, di tante persone. E la scelta è sempre un atto propriamente umano, sia esso individuale o collettivo; risponde sempre a un dubbio, ad un ‘alternativa senza la quale  non sarebbe possibile.
Il trapianto è quindi innanzi tutto il frutto di una decisione, o meglio ancora l’esito finale di una scelta composita, fatta da persone diverse: l’Io ricevente; l’Altro che ha deciso di donare i propri organi o qualcun altro che ha deciso per lui; i medici che devono decidere se esso è di fatto praticabile, se ci sono i requisiti per iscrivere o non in una lista di attesa, anche qui scegliendo tra un paziente e l’altro.  Alla base di questo processo di scelta che coinvolge queste persone c’è già una scelta di base: tutti hanno stabilito che la sopravvivenza è un bene. E devono averlo deciso in relazione a tanti fattori, sia di realtà che di opportunità: mi riferisco all’età, alle condizioni fisiche, alle considerazioni più ampie di ordine familiare e sociale.  Una valutazione complessa che deciderà se la vita , o meglio quella vita, possa e debba essere prolungata.
Fin qui sembra che la scelta sia un fatto puramente razionale  o tecnico , una scelta ponderata resa possibile dalle acquisizioni  scientifiche e dai suoi progressi. Ma essa è anche un fatto emotivo, immaginativo, simbolico. Potere estendere i propri confini, continuare a vivere oltre la propria morte, avere in mano, o  tra le mani, la possibilità di creare ancora vita ci assimila al dio, a un sentimento di onnipotenza che un tempo andava al di là dell’umano. Sentimenti che abitano il cuore della scienza oltre che dei singoli protagonisti di questa avventura. Nella scelta siamo già di fronte ad una enormità di fattori che concorrono a determinarla e che la includono tra le scelte più difficili da fare, in quanto biforcano o comunque alterano fondamentalmente il proprio piano di esistenza.
 Una scelta che comporta l’inevitabile peso delle sue conseguenze, impossibili da prevedere se non in una formulazione di tipo statistico.* Una scelta che risente del clima collettivo, dei condizionamenti culturali, delle spinte agite dai mass media e dalle fantasie  che esse suscitano.
Una scelta tra la morte e la vita, nella speranza che i due stati possano distinguersi ed isolarsi a vicenda, senza che l’una si inserisca prepotentemente nell’altra.
Scrive Jan-Luc:
Dal momento in cui mi fu detto che era necessario un trapianto, tutti i segni parvero vacillare, tutti i riferimenti capovolgersi. Senza riflettere, certo, senza individuare nessun atto, nessun mutamento. Semplicemente la sensazione fisica di un vuoto già aperto nel petto, con una sorta di apnea in cui niente, assolutamente niente, neppure oggi, riuscirebbe a districare da me l’organico, il simbolico, l’immaginario, né a separare il continuo dall’interrotto: era come un unico soffio, ormai sospinto attraverso una strana caverna già impercettibilmente socchiusa, un’unica impressione:di essere caduto in mare pur restando ancora sul ponte.


*L’imprevedibilità di una simile scelta e del carico emozionale  cui la stessa connette,  è bene descritto nel recente film  “21 granmm:il peso dell’anima” che guarda alla problematica del trapianto dai diversi punti di vista (  donatore/ ricevente)  penetrando acutamente nella tempesta emotiva che la stessa sollecita in tutti quelli che vi sono coinvolti.                                                                  



L’ATTESA

Eccomi qui…in attesa. Un’attesa che potrebbe durare da pochi giorni a lunghi e interminabili mesi. Un mese è già passato: è passato in fretta e spero che quelli che verranno, se dovranno essere tanti, trascorreranno altrettanto in fretta. Perché l’idea che più il tempo passa più le mie energie fisiche e mentali vengano meno mi fa enormemente paura.

Così apre il suo diario Cristina Bono.* La scelta è stata fatta : si apre il tempo dell’attesa.
Cosa può accadere nella mente di chi aspetta un altro cuore per non morire? Come mettere  d’accordo questo desiderio di vita che si fonda sulla morte di un Altro? Come potere immaginativamente sopportare che questo fatto avvenga il più presto possibile? Cristina lo risolve nell’immagine del cavaliere sconosciuto.Un’immagine mitica, fiabesca, che l’aiuta a risolvere l’enigma di quell’ignoto donatore che con la sua morte le regalerà la vita. Un’immagine capace di non far sentire all’interno della propria coscienza un possibile, remoto senso di colpa, ma che all’opposto si traduce in una fantasia di continuazione: l’altro potrà continuare a vivere dentro il mio corpo.
L’attesa è dunque densa di fantasie tra la propria vita e la morte dell’altro, di un’ambiguità che necessita di una soluzione immaginativa per essere meglio tollerata e che comporta un tempo fatto di ansie ,di angosce, ma anche di speranze e di fiducia. L’ansia dell’attesa è anche densa della paura di non farcela, di non avere forze sufficienti, morire prima.

Scrive Cristina: Quando il corpo poco per volta ti abbandona, consumandosi lentamente come una candela è solo la forza della mente che ti permette di continuare a lottare.  A  sperare.  A sopravvivere. E quando anche la mente è stanca e si abbandona a sè stessa perdendo la voglia di lottare?
Per attendere in alcune condizioni è infatti necessaria tutta la propria forza interiore e la piena volontà di volersi misurare con le limitazioni e le mancanze che ne verranno. Una situazione psicologicamente molto frustrante che facilmente può generare depressione, disperazione, ribellione. Dice Cristina nel corso del suo scritto che ha dovuto imparare la pazienza, cosa per lei sconosciuta fino a quel momento. L’attesa è perciò la fase della sfida con il tempo, con il Caso o col destino, ma più e più ancora con sé stessi. E’ necessaria una capacità di resistenza che solo una forte motivazione può sostenere, cui non basta il solo istinto di sopravvivenza, ma la capacità di nutrire e sostenere in esso gli inevitabili momenti di cedimento, di scoraggiamento. A volte infatti il desiderio di gettare la spugna si fa più forte, più intenso. In quei momenti è inutile ogni ragionamento, o discorso o retorica. Come dice Jean-Luc  si deve solo gridare e gemere, accogliendo in la propria vulnerabilità e attraversarla.


* L’atteggiamento di Cristina Bono, come si può subito avvertire da questi brevi stralci, è molto diverso da quello di Jean-Luc. La funzione sentimento sembra prevalere su quella  di pensiero che sottende il procedimento del filosofo, più speculativo e più critico. Cristina, in modo più femminile, trova nell’immaginazione e nella poetica della mente la risoluzione dei propri conflitti, con un’adesione all’evento più ottimista e gioiosa anche nei momenti di maggiore difficoltà. I due racconti sono speculari e chiunque li legga  ascolterà la complementarietà di queste voci come tonalità affettive di un unico canto  innalzato alla fatica del vivere.

    
IL PASSAGGIO


Buongiorno Professore!
Ci sarebbe la possibilità di un trapianto.
Bene.Mi dica cosa devo fare.
Si prepari con calma e venga in ospedale.
D’accordo, non ci metterò molto. Abito vicino.
Ma lei dov’è adesso?
A casa.
E perché non ha risposto alla prima telefonata?
Perché non me ne ha dato il tempo!

Il momento è giunto. Quello che per mesi si è sperato e temuto insieme è accaduto. Un cuore è pronto per la nuova abitazione, per un’altra dimora. Il tempo diventa ora velocissimo. Bisogna far presto, affrontare il passaggio, l’inevitabile incognita in esso contenuta, il rischio di non farcela. La scelta si fa più cupa, più opprimente: ma non c’è tempo ora per la riflessione. E’ il tempo dell’agire, dell’esserci, con la consapevolezza di dovere attraversare il non essere. Come dice Jean-Luc  il trapianto impone l’immagine di un passaggio attraverso il nulla, dell’uscita in uno spazio svuotato di ogni proprietà e di ogni intimità,…mentre il corpo sarà spazio di intrusione di tubi , pinze, suture, sonde. Per ora il passaggio è affidato a tutti gli altri, meno che a sé stessi. Sarà dei medici, degli anestesisti, delle macchine. Sarà dei familiari in trepidante attesa nei corridoi. Sarà degli altri, come del resto tutti i più grandi eventi che ci riguardano.
JeanLuc vive questo momento come il massimo della propria estraniazione.
Cristina lo vive come un lungo viaggio in cerca di sé stessa.
Tutto ciò che fino a quel momento si era immaginato, o al contario tenuto distante dalla propria immaginazione, sta ora per avvenire: l’apertura del torace, la conservazione dell’organo da trapiantare, la circolazione extra corporea. Paura ed euforia convivono  o si alternano in una massa caotica di sentimenti . E’ certo il momento dei saluti.
Cristina saluta con la certezza di tornare.

        IL DOPO

Il primo pensiero è sempre: sono ancora qui.  Quell’io che durante l’intervento si è ritirato in un altrove inaccessibile fa ritorno e con esso torna la consapevolezza dell’esistere, ora, qui, ancora in questo corpo. Come l’angelo caduto dai Cieli sopra Berlino  sono proprio i segnali di dolore del corpo a richiamare l’Io alla gioia di esistere. Il ritrovamento di sé sta proprio in questo miscuglio di gioia e dolore, entrambe manifestazioni primarie dell’essere. Comincia  ora una  fase lunga e difficile durante la quale  –dice Jean Luc –  si va di dolore in dolore. All’immediato dolore del risveglio, delle sonde, dei cateteri, delle arsure , delle ferite, si aggiunge il pericolo del rigetto. Questo corpo ancora vivo, vive con un altro cuore. L’estraneità adesso non è più né simbolica, né psicologica. E’ immunitaria. Il corpo respinge l’altro da sé: lo attacca. Tende a distruggerlo. Non è capace di riconoscerlo come proprio. Per fare in modo che quell’organo improprio così faticosamente conquistato resista all’interno del nuovo spazio corporeo occorre indebolire la capacità di quest’ultimo di autodifendersi, bisogna impedire la funzione del riconoscimento, rendere il sistema difensivo inerte, inerme.
Si giunge così – cito ancora Jean-Luc – a un regime permanente dell’intrusione entro il quale la vita stessa diventa nemica. Il corpo indebolito dalla terapia immunosoppressiva lotta selvaggiamente per resistere. Tutto può attaccarlo. Persino il suo stesso interno.
Continua Jean Luc: Dall’avventura si esce sperduti. Non ci si riconosce più: ma “riconoscere” non ha più senso. Si diventa rapidamente solo un’ondeggiamento, una sospensione di estraneità fra stati non bene identificati, fra dolori, impotenze, cedimenti.
Qualcuno non ce la fa. A volte succede proprio nel letto accanto, al proprio compagno di avventura.
Come per Marie. Racconta Cristina che la morte della compagna di letto l’aveva gettata nella più pura disperazione, come se  tutta la fatica fino a quel momento sostenuta fosse stata vanificata in un attimo dalla realtà tremenda di quella scomparsa, proprio nel letto accanto.
La battaglia continua a richiedere nuove forze, nuova capacità di sopportare e andare avanti senza guardare indietro, senza guardare accanto. La morte dell’altro è sempre la proiezione della nostra morte, l’inevitabile momento in cui la rimozione di questa eventualità non regge più e la realtà compare nella sua più elementare evidenza.
Cristina supererà anche questa prova, continuando a guardare avanti e andando oltre la lacerazione che l’abbandono della sua compagna ha provocato, cercando di considerare anche quell’evento come l’ennesima sfida al suo spirito eroico, come ulteriore conferma della sua determinazione.

LA CONVALESCENZA

Superata la prima fase , assestata la terapia antirigetto, si chiude il periodo dell’ospedalizzazione e si torna a casa. Ma il ritorno tra le proprie cose non è esattamente il ritrovamento costante delle cose così come si erano lasciate. L’esperienza oltrepassata ha modificato profondamente la percezione del mondo circostante e di sé stessi. L’apertura del proprio spazio corporeo e l’intrusione di un organo estraneo ha comunque modificato l’immagine precedente. Quand’anche lo straniero sia stato accolto ed assorbito in sé,  rimane il dubbio che esso abbia alterato la propria originarietà e che  qualcosa di sé sia cambiato per sempre.

Che strano Io ! - continua Jean Luc-  La questione non è che mi abbiano aperto, spalancato, per sostituirmi il cuore, ma che questa apertura non può essere richiusa…..Io sono aperto chiuso. C’è in me un’apertura attraverso la quale passa un flusso incessante di estraneità: i farmaci immunodepressori e gli altri che servono a combattere alcuni effetti detti secondari.  Le conseguenze inevitabili,…..i ripetuti controlli, tutta l’esistenza posta su un nuovo piano, trascinata da un luogo all’altro. La vita scannerizzata e riportata su molteplici registri ciascuno dei quali iscrive altre possibilità di  morte.

Il ritorno alla normalità dunque – se ha ancora un senso utilizzare questa espressione – è un processo giornaliero di riappropriazione e di revisione del rapporto con sé stessi e le cose che ci circondano. Ogni malattia offre sempre l’occasione di una trasformazione esistenziale. La scala di valori su cui si fondava il proprio universo può variare o capovolgersi. Dipende dalla storia di ognuno, dall’immagine e dal significato che ognuno dà alla propria malattia e alla propria sofferenza. E’ da queste immagini e dal senso ad esse attribuito che si può trarre la volontà e la motivazione a combattere o, viceversa, abbandonare il campo, autodistruggersi. Il materiale psichico è dato dalla combinazione di diversi fattori: le esperienze passate, il grado di soddisfazione o insoddisfazione del presente, le tensioni e gli obiettivi del futuro. E poi è dato dalle idee, dalle convinzioni razionali ed irrazionali di ognuno di noi, dalla propria disposizione emotiva.
Un trapianto e il suo esito non è la storia dell’intervento chirurgico né delle odierne possibilità terapeutiche. Non è possibile trovare soluzioni ad una dimensione, né innalzare il progresso scientifico ad unico dio. E’ necessario comprendere che l’uomo è dotato di una parte intangibile ed inafferrabile,  un daimon interiore  che lo guida ancor più delle sue capacità razionali, che anzi più spesso confonde o annienta.
Conclude Jean-Luc : L’intruso non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso. Non è nessun altro se non lo stesso Io che non smette mai di alterarsi, insieme acuito e fiaccato, denudato e bardato, intruso nel mondo come in sé stesso, inquietante spinta dello strano, conatus di un’infinità escrescente.
E Cristina a sua volta:  Con il trapianto ho imparato a volermi bene. E poi io e il mio nuovo cuore stiamo bene insieme. Ci siamo piaciuti subito. Sin dal primo momento ho sentito che faceva parte di me. Non l’ho mai considerato un estraneo….. Penso spesso alla persona che me lo ha donato. Nei momenti di felicità riconquistata mi metto una mano sul cuore e gli sussurro un grazie.


Bibliografia:
Cristina Bono  Con il cuore in sospeso” Bollati Boringhieri 
Jean-Luc Nancy  “L’intruso” Cronopio.



Relazione presentata al Convegno Regionale CEFOPER : Corso di aggiornamento “L’evoluzione del S.S.N. Disposizioni in materia di prelievi e trapianti d’organo”  Nicolosi  Ct  2001





sabato 13 ottobre 2012

Non c'è amore più sincero di quello per il cibo. George Bernard Shaw



Bulimia
A differenza dell’obesità, che è una vera e propria malattia sociale, la bulimia insieme all’anoressia è una patologia di natura esclusivamente psichica. Inoltre essa non è necessariamente collegata ad un aumento ponderale, ma si riscontra in persone apparentemente normali, anche perché la loro condotta alimentare è tenuta in segretezza e pertanto sfugge alla attenzione degli altri. Chi soffre di bulimia nervosa è portato a grandi abbuffate, spesso notturne, cui fanno seguito comportamenti compensatori come il vomito autoindotto , diete ferratissime, talora digiuni e uso frequente di lassativi e diuretici. La spinta a rimpinzarsi è dovuta ad un sentimento di grande vuoto interiore, che fa capo a relazioni affettive fallimentari o inesistenti. Nel disperato tentativo di riempire questo vuoto, chi ne soffre intrattiene con il cibo una relazione tossica che devasta il suo corpo come la sua psiche. L’ossessiva dipendenza dal cibo è fonte di gravi sensi di colpa che in molti casi inducono ad atti autolesionistici. Mentre nell’anoressia questa sofferenza è palese e la persona anoressica non riesce a tenerla nascosta, nella bulimia il comportamento dannoso è tenuto sotto controllo e spesso assolutamente invisibile.
Il pensiero ossessivo del cibo “riempie”  la mente proteggendola da emozioni come la rabbia, la paura, il desiderio, che per vari motivi non si è capaci di gestire. Il cibo, così come la bilancia e tutti  i vari meccanismi compensatori cui ho accennato, sono una potente difesa contro altri pensieri intrusivi, al riparo della consapevolezza dei propri veri problemi che quasi sempre sono collegati al rifiuto di sé stessi, ad un cattivo rapporto con il proprio corpo, fonte di una tensione intollerabile, e al senso di disistima personale.
Accanto alla bulimia vera e propria esistono “atteggiamenti bulimici” che è possibile osservare non solo in relazione al cibo,  ma  in tutti quei comportamenti ossessivi che inducono a soddisfare i propri bisogni di natura affettiva attraverso il consumismo sfrenato, o i rapporti sessuali usa e getta,  o altre esagerazioni comportamentali che in ogni caso risultano dannosi per la persona. Mangiare e riempirsi e vomitare diventano parti integranti di un copione cui è impossibile resistere.




Anoressia
Come la bulimia, anche l’anoressia nervosa appartiene al gruppo di patologie di origine psichica. E anche questa viene considerata una malattia del mondo industrializzato. Si riscontra più frequentemente nelle donne, ma ultimamente è in aumento anche tra i giovani maschi. Molto spesso bulimia e anoressia si alternano nella stessa persona, in fasi temporali diverse o anche in una continua oscillazione tra l’una e l’altre.  Nel suo  “Tutto il pane del mondo” ( Bompiani)  Fabiola de Clercq racconta molto bene come le due forme possano coesistere e rafforzarsi reciprocamente.
Il rifiuto ostinato del cibo, insieme alla amenorrea nelle donne, alla perdita di interesse sessuale, e alla paura ossessiva di ingrassare, viene spesso ricondotto  ad un desiderio di “spiritualizzazione”, che vede nella carne e nei suoi bisogni un attaccamento alla vita terrena cui si intende rifuggire. Una ideologia ascetica sembra sposare alcune tendenze ossessive della personalità che nel diniego della materialità esalta i valori della mente e dello spirito, talora accompagnato da un vero è proprio disprezzo o disgusto per chi normalmente ne gode.   Manca nell’anoressico  il riconoscimento della propria patologia, e dei sentimenti di vergogna e di colpa che assillano il bulimico.  Al contrario  l’esibizione della propria magrezza è giustificata da scelte ideologiche o razionalizzazioni tese a sostenere ed ostentare la propria scelta. Tutto ciò poggia  su una alterata percezione del proprio corpo  che viene sempre considerato in modo irrealistico, sottoposto ad un controllo rigoroso e costante.  Spesso la dismorfofobia  raggiunge livelli estremi di distorsione percettiva che vanno anche al di là degli aspetti propriamente legati al proprio corpo. Tra le cause psicologiche si possono ritrovare esperienze familiari negative, delusioni sentimentali, lutti o gravi incidenti occorsi a persone care, abusi sessuali. Il rifiuto del problema è spesso indice di aggressività auto ed etero diretta, di ribellione,  con conseguenze sul piano affettivo relazionale e , naturalmente, sul piano della salute. Il potere fare e disfare, mangiare e vomitare, dà l’illusione di controllo di sé e del proprio mondo,  attorno al quale gira un potente senso di frustrazione e di sofferenza.
Come afferma Fabiola De Clercq nell’opera citata , che è il diario della sua malattia, “Per dimostrare la mia volontà di vivere malgrado tutto, io non vivo. Sto mimando la vita come un’attrice interpreta una parte. Ora non sono più capace di uscirne.”


sabato 6 ottobre 2012

3. 4. 5 Ottobre 2012 “Verso una medicina capace di ascoltare"


Riflessioni sul “malessere organizzativo”

Anche la seconda edizione del corso di formazione per operatori sanitari di cui sono stata organizzatrice e direttore scientifico presso l’Azienda Ospedaliera  ARNAS Garibaldi di Catania si è conclusa con notevole apprezzamento da parte dei partecipanti. Ancora una volta mi sembra inevitabile soffermarmi a fare alcune considerazioni su quanto è avvenuto nei tre giorni di lavoro, sottolineandone la diversità rispetto a quanto avvenuto nella prima edizione.
L’organizzazione del corso aveva inteso dividere gli argomenti articolandoli su due aree precise : una prima area o sessione tesa ad  esplorare le problematiche più usuali per la pratica medica, considerate però da una prospettiva psicologica e indicando pertanto una riflessione  analiticamente approfondita riguardo a contenuti come la comunicazione della cattiva notizia, o l’accompagnamento nella terminalità o  la modalità di effettuare un triage attento anche alla dimensione psichica e non soltanto strettamente medica . La seconda sessione, più vasta rispetto alla prima anche in termini di tempi, ha voluto invece dedicare la sua analisi all’assetto organizzativo, al clima ambientale e al contesto entro il quale ordinariamente si svolge l’attività medica di “cura”.
Entrambe le sessioni prevedevano una parte esperienziale e pratica su quanto teoricamente esposto.
Lo scarto tra la prima giornata, inerente la dimensione clinica, e le altre due inerenti la dimensione organizzativa, che nella prima edizione aveva avuto una funzione catartica rispetto alle tensioni emotive  esplicitate nella dimensione clinica, in questa seconda esperienza si è posta da subito come spazio estraneo  e poco interessante,  come se l’organizzazione  riguardasse in ogni caso “gli altri” e non in qualche modo testo nel quale inscrivere il proprio contributo individuale. Se questo era nella coscienza del gruppo il sentimento circolante, tuttavia lo stesso non si sottraeva in alcun modo ai “compiti” proposti riuscendo a portare a compimento quello che dichiaratamente credevano di non poter sapere fare. E’ attraverso questo gioco di negazione e partecipazione, di malcelate manifestazioni di malcontento, che il gruppo ha messo progressivamente  fuori non soltanto l’evidente malessere vissuto quotidianamente  nel proprio ambiente di lavoro, ma il  bisogno di entrare  di più a comprenderne le dinamiche per potersi  fare parte attiva nei processi decisionali, nella definizione delle regole e in quant’altro possa riguardare  la propria parte nell’insieme. Certo ne deriva lo scoraggiamento circa l’impossibilità di modificare tout court la cultura organizzativa radicata nel nostro paese, ma forse la consapevolezza (anche questa antica)  che il silenzio e la delega servono solo a rafforzarla  può essere la spinta a cambiare qualcosa nella cultura dell’operatore che, con più dignità e coscienza, può sentirsi parte di un organismo vivo e in continuo cambiamento, piuttosto che di una macchina  vecchia e malfunzionante. In ultimo, oltre alla precisa richiesta di ulteriori momenti formativi che lavorino in tal senso, è emersa con chiarezza  la necessità di una  cura  adeguata per venir fuori dal malessere  condiviso dagli operatori sanitari dell’azienda, dove il narrare e il raccontare diventa strumento di cambiamento e che in questo piccolo, ma ricco,  momento formativo si è  avuta occasione di fare.

lunedì 1 ottobre 2012

Obesità





L'obesità è una vera e propria patologia tipica, anche se non esclusiva, delle società cosidette "del benessere".
Essa è causata da una  combinazione di fattori, compresa la  predisposizione genetica.   Gli aspetti psicologici e sociali , le abitudini familiari, la sedentarietà,  l’ambiente in cui  si vive , talora anche determinati farmaci, contribuiscono a rafforzare questa predisposizione di fondo che si correla in modo significativo ad altre patologie come il diabete, le malattie cardiovascolari, le patologie a carico del sistema osteo articolare e le sindromi psichiatriche. L'approccio psicologico al trattamento dell’obesità risulta oggi riconosciuto come fondamentale per la piena guarigione del paziente che vive una condizione psicologica molto pesante anche per gli effetti discriminanti che il maggiore peso provoca a livello relazionale, sociale e lavorativo. In una società come quella attuale, nella quale i valori dominanti ruotano attorno alla bellezza, all’immagine  e alla forma fisica, l’obeso viene considerato negativamente e, se bambino o adolescente, diviene oggetto di derisione o di esclusione dal gruppo dei pari. In realtà è proprio il numero di questi ultimi che oggi è in costante aumento, con gravi danni per il loro sviluppo fisico e psichico.
Recentemente si diffonde sempre più nel trattamento degli obesi adulti la chirurgia bariatrica, ultima sponda dopo innumerevoli fallimenti di altre metodologie. Anche in questo caso un’attenta analisi delle problematiche psicologiche di fondo, le aspettative  e le illusorie convinzioni circa i risultati, sono alla base della opportunità o meno di affidarsi a questa metodica  che talora slatentizza ulteriori difficoltà emotive e reazioni psicopatologiche. Se il cibo, considerato l’elemento fondamentale di “nutrimento” del proprio vuoto esistenziale, affettivo, emozionale,  non può più essere “accolto” nel proprio sé, per via della restrizione della sacca gastrica, l’individuo rischia di cadere in depressione  o in altre forme di disagio.


sabato 29 settembre 2012

I disturbi alimentari


Nella mia pratica professionale mi sono spesso trovata a trattare problematiche connesse ai disturbi alimentari: disturbi oggi in aumento in tutte le fasce di età, soprattutto fra i giovanissimi.
Così ho deciso di "alimentare" il mio blog parlandone un pò.
Comincio da un generale sguardo su questa tematica, approfondendo successivamente l'argomento in modo più specifico.

In generale si indica come disturbo alimentare un alterato rapporto con il cibo che va oltre le normali “deviazioni” soggettive comprese nell’ arco della cosiddetta normalità.
Ogni individuo ha i suoi gusti , le sue preferenze verso determinati cibi, un suo stile alimentare che si manifesta spesso a partire dai primi anni di vita. Pertanto le differenze individuali si radicano nel contesto culturale di appartenenza, nello stile familiare ed educativo,  nelle condizioni economiche e climatiche: tutti aspetti che influenzano enormemente le abitudini alimentari di tutti noi.
Ma la “diversità” non riguarda solo il gusto e le preferenze ma, in modo più significativo ,  l’atteggiamento con cui ci si accosta al cibo e le modalità attraverso cui “consumiamo” questa relazione. Il cibo infatti rappresenta l’elemento esterno che nutre non solo il nostro corpo, ma anche la nostra anima, la mente, i pensieri. Il cibo è un mondo, per non dire il mondo con cui primariamente entriamo in contatto.
Per la teoria freudiana dello sviluppo,  la fase orale, che inizia con l’allattamento al seno materno,  costituisce la base fondamentale su cui si  organizza la relazione oggettuale. L’attività nutritiva costituisce il mezzo attraverso cui il bimbo si impossessa del mondo, imparando a conoscere e a sentire  attraverso la bocca , gradualmente distinguendo e differenziando un oggetto dall’altro attraverso il  piacere o il disgusto e , in conseguenza , incorporando il primo e respingendo l’altro. Su questa premessa che non intende essere il necessario, né tanto meno unico,  paradigma interpretativo dei futuri comportamenti alimentari dell’adulto, dà tuttavia la misura di quanta importanza ha nell’individuo la relazione con il cibo e come quest’ultimo sia connesso non solo al fondamentale istinto di sopravvivenza, ma alla rappresentazione immaginaria del proprio essere nel mondo.
Sulla base della sua importanza  è possibile inserire la sempre crescente attenzione che viene prestata a tutti quei comportamenti che , in eccesso o in difetto, si discostano enormemente dalla normale varietà cui ho accennato, divenendo,  oggi più che mai , vere e proprie patologie con gravi danni per l’integrità psicofisica dell’individuo e conseguenze talora anche mortali.
Obesità, bulimia, anoressia, fame compulsiva , food carving, disordini alimentari, fanno tutti parte di un alterato rapporto con il cibo considerato non più come normale fonte di nutrimento e di piacere, occasione di convivialità e ritualità sociale,
ma come luogo di scatenamento di profonde tensioni emotive,  condotte compensatorie di insoddisfazioni e frustrazioni di ogni genere, che rendono l’individuo prigioniero dell’ossessionante desiderio di mangiare unitamente all’ancor più ossessionante desiderio di liberarsene. Accanto a questo cresce e si radicalizza un distorto rapporto con il proprio corpo, vissuto come il minaccioso testimone delle proprie fobie, reo confesso di fronte all’altrui sguardo e giudizio, dai familiari, agli amici, ai medici.     

domenica 16 settembre 2012


Ansia e attacchi di panico


Negli ultimi anni il numero di persone che soffrono di ansietà generalizzata, angoscia di morte e attacchi di panico è notevolmente aumentato, e in tutte le fasce d’età.

Nella mia esperienza ospedaliera, dove una vasta fetta di questa popolazione sofferente si rivolge anche al Pronto Soccorso, questi disturbi provocano manifestazioni somatiche di vario tipo: svenimenti, sudorazione, accelerazione del ritmo cardiaco, solo per citare quelle più eclatanti. Molte altre manifestazioni sono meno visibili ma non meno disturbanti e fonte di disagio. Mi riferisco a coliti nervose, insonnie, blocchi motori, e  molti disturbi ancora che l’ansia ingigantisce e moltiplica contribuendo ad alimentare aspetti ipocondriaci, difficoltà relazionali, scarsa concentrazione negli studi e al lavoro.

Uno degli aspetti più strettamente collegati all’ansia è il crescente desiderio di controllo che nella società contemporanea viene sostenuto da tutta una serie di mezzi e strumenti atti a monitorare continuamente le possibili “deviazioni” dalla normalità.

Parlo dell’uso quotidiano dei cellulari, internet, social network, per arrivare alle sofisticate possibilità delle tecnologie medicali che, se inappropriatamente utilizzate, spingono il  concetto di prevenzione verso un disastroso rapporto con il proprio corpo, vissuto come luogo nemico e fonte di insidie da scoprire. Riguardo ai primi (cellulari ecc.) è noto che , accanto all’ indubbia utilità e comodità del loro utilizzo, hanno nel contempo esasperato l’idea della presenza assoluta e costante , disabituando alla necessità di tollerare la separazione dall’altro e di non averne sempre il controllo.

Questo accanimento , nelle relazioni genitori figli e in generale in tutti i rapporti affettivi,  ha senza dubbio esagerato le dinamiche di dipendenza, relazioni conflittuali, paure di perdita, ecc.

Da questo quadro generale che caratterizza la nostra società, vediamo meglio quali sono i sintomi dell’ansia e degli attacchi di panico e come l’una può sfociare nell’altro, anche se non necessariamente.

 

L’ansia

 

L’ansia è uno stato emotivo connesso da un lato alla personalità del soggetto, dall’altro a periodi più o meno prolungati di stress o di esperienze dolorose che mantengono la persona in una costante situazione di preoccupazione eccessiva, sensazione di attesa o di “allarme”, rendendola  particolarmente vulnerabile e “attaccabile”  da stimoli esterni o interni anche di modesta entità.

Le persone ansiose vivono pertanto in una condizione di costante “minaccia”, sono dominati da pensieri negativi, spesso accompagnati da fobie e paure di vario tipo.

Per la persona ansiosa ogni esperienza viene vissuta come una prova verso cui ci si sente impreparati o inadeguati o ritenuta al di là delle proprie possibilità. In determinate situazioni l’ansia si può scatenare in vere e proprie crisi con sudorazione, vampate, battiti cardiaci accelerati, sensazioni di oppressione e di peso al petto.

Quando questi sintomi superano una certa soglia di intensità, presentandosi tutti insieme come dei veri e propri “attacchi”, la persona perde il controllo di sé stessa, della sua mente e della situazione: questo è l’attacco di panico.

Attacchi di panico


Sudorazioni, vampate di caldo o di freddo, sensazioni di soffocamento,  tachicardie,  dolori diffusi e  difficoltà di respirazione , perdita di controllo della situazione sono i sintomi che , tutti insieme, caratterizzano gli attacchi di panico che spesso insorgono anche nelle personalità non apparentemente ansiose ma, al contrario rigide, represse,poco disponibili al cambiamento : oggi viene indicato come DAP (Disturbo da Attacco di Panico) ed è in crescente aumento soprattutto tra i giovani e giovanissimi.

L’attacco di panico genera una paura secondaria, quella dell’attacco stesso, e pertanto disturba il normale svolgimento della vita per la paura che lo stesso possa ripresentarsi. La comparsa dell’attacco di panico è improvviso e inaspettato, almeno la prima volta. Esso è uno squarcio nella regolarità dell’individuo, qualcosa che lo costringe a fermarsi. Chi è colpito da attacchi di panico vive nel terrore del suo ripetersi (ansia anticipatoria) e pertanto evita tutte quelle situazioni ritenute possibili fonte o occasione di simili esperienze. Nei giovani questo porta a difficoltà scolastiche, ritardo nel superamento degli esami, timore di affrontare le situazioni nuove o le relazioni sociali.

Le conseguenze possono essere fobie di vario tipo ( paura di uscire, di stare soli o di stare nella folla, viaggiare ecc): paure che non soltanto limitano fortemente la vita ma alimentano un generale sentimento di frustrazione e di disistima che, se non opportunamente trattato, può generare depressione e una sostanziale deformazione nella percezione di sé.

Come intervenire?

L’ansia e gli attacchi di panico vanno sempre considerati nel contesto della persona, della sua esperienza di vita e del momento della loro insorgenza. Non esiste l’ansia in sé, ma la persona che la vive, la sua personalità e i sintomi attraverso cui la stessa si manifesta.

Prima di rivolgersi a cure farmacologiche ( ansiolitici e psicofarmaci) è utile capire di che si tratta attraverso un’indagine psicologica approfondita delle tematiche che la sostengono,  e di valutazione diagnostica in modo da scegliere il percorso terapeutico  più opportuno per la singola persona. L’ansia non è uno stato da rimuovere ma da comprendere, un moto dell’anima che racconta molte cose e che bisogna sapere ascoltare.


 Lilia Di Rosa


venerdì 27 luglio 2012

21 Settembre 2012 Mostra Fotografica "Il Vuoto nella mente"

Anche quest'anno, in occasione della Giornata Mondiale dell'Alzheimer, dedico una pagina speciale della mia vita alla memoria di mia madre.
La mostra fotografica che ne intende rappresentare il tema, non si soffermerà solo sugli aspetti individuali della malattia di Alzheimer, ma proporrà degli "scatti" che puntino lo sguardo sulle manifestazioni più deteriori del nostro sociale e della nostra contemporaneità. Tutti viviamo nel generale declino dei valori che caratterizza l'oggi: dall'etica, alla politica, alla cultura. Come se il mondo fosse "annebbiato" dal grigio che ci investe. Solo l'Arte può aiutarci a schiarire le nostre idee e a richiamarci all'impegno, alla necessità di contribuire ad un risveglio che il vuoto sta divorando. Questa è la strada che ho scelto per non perdere la memoria di quanto si sta smarrendo.

venerdì 22 giugno 2012

Verso una medicina capace di ascoltare


11/12/13 Giugno 2012
Un importante corso di formazione per operatori sanitari presso l'ARNAS Garibaldi, del quale sono stata direttore scientifico.
Questo il mio commento finale alla prima edizione.



Nei giorni 11/12 /13 di questo Giugno, nell’aula Dusmet del Presidio Garibaldi Centro si è svolto il corso di formazione per le figure sanitarie operanti nei reparti critici dell’Azienda. Il corso, del quale è  prevista nel mese di ottobre una seconda edizione per il presidio di Nesima, fa parte integrante del Progetto obiettivo PSN 2010 finalizzato alla Riabilitazione psicologica nei reparti critici e pertanto diretta a  coinvolgere gli operatori all’acquisizione di metodologie di lavoro e di tecniche d’intervento che guardino alla dimensione psicologica dell’ammalato e della sua famiglia da un lato, al rapporto tra operatori nell’ambiente di lavoro dall’altro: aspetto sempre interconnesso con il primo e pertanto fattore indispensabile per il raggiungimento di un “benessere organizzativo” adeguato e soddisfacente per chi lavora e , d’altro lato,  efficace per la produttività di un’azienda il cui fine è “fare salute”.  

Se già nel titolo era chiaramente enunciata la necessità di  ascolto come fondamento di una medicina attenta ai bisogni dell’uomo nella sua interezza, e non di una tecnica specialistica rivolta a singoli  pezzi del corpo,  è certo che durante i tre intensissimi giorni l’ acquisizione di tale capacità   è stata non solo “elaborata” , ma riconosciuta come un bisogno dell’operatore stesso, del medico in particolare, che avverte nella “techné” della medicina moderna la perdita del rapporto umano e della sua propria capacità di ascolto . Il gruppo dei partecipanti, 35 tra medici e infermieri, hanno saputo dare spazio durante lo svolgimento dei lavori alle loro difficoltà e problematicità secondo un percorso che , se al primo impatto si manifestava come insofferenza, impazienza, diffidenza , si è gradualmente trasformato in un atteggiamento di curiosità prima , di riflessione sui contenuti e sugli  spunti offerti poi. E’ possibile pensare che l’atteggiamento iniziale risentisse di una prioritaria  mancanza di chiarezza sugli obiettivi del corso certamente distanti dalla pratica clinica cui gli stessi sono abituati e che,  malgrado come gruppo di lavoro avessimo messo impegno nel cercare di sintetizzare nella brochure informativa,  non erano stati in grado di raggiungere sufficientemente  l’orecchio degli iscritti. 

Superato il primo momento però, si è osservato un vero processo di cambiamento del gruppo, qui e ora, capace di modificare la propria capacità di ascolto, di relazione e di dialogo, e che pertanto il percorso esperenziale guidato in particolare dal relatore esterno, Dr Alessandro Lombardo, nella seconda e terza giornata del corso, ha trasformato la carica emotiva iniziale in spazio di consapevolezza e di riflessione.

A partire dalla prima giornata, dedicata alla clinica e alla elaborazione di temi imprescindibili dalla pratica ospedaliera quotidiana trattati dalle  psicologhe D.ssa Angela Fabiano e Lucia Toscano, insieme alla sottoscritta  – contenuti che stanno alla base di un’assistenza capace di ascoltare i bisogni e attenti alle ferite dell’Anima  e non solo  a quelle del corpo-  gradualmente  si è approfondita nel gruppo dei partecipanti l’analisi critica del contesto ospedaliero e del loro intervento professionale, riuscendo a “drammatizzare” i punti più nevralgici dell’accadere operativo: nelle sale operatorie, tra le corsie, nei rapporti tra colleghi. La capacità creativa che il gruppo ha manifestato nel ri-creare momenti drammatici della loro esperienza giornaliera ha dato la migliore prova della possibilità che ciò che è stato detto si può trasformare in  esperienza pratica e che, pertanto, la teoria si possa riportare nel lavoro di ogni giorno.

Certo ci vorrà ancora del tempo e molti altri momenti formativi , molti sforzi e molta volontà per migliorare l’organizzazione nel suo insieme per un’assistenza più vicina alle complesse esigenze dell’utenza e per il miglioramento delle relazioni lavorative. Ma poiché ogni cambiamento comincia dalla capacità di pensarlo è indispensabile che nella dimensione del lavoro quotidiano si apra uno spazio al pensiero critico, alla riflessione, e alla consapevolezza di ciò che si fa e soprattutto del come si fa. Questo è uno degli obiettivi del nostro lavoro di psicologi nel momento in cui , insieme a tutte le figure professionali impegnate nell’assistenza,  creiamo una dimensione di ascolto reciproco, di scambio e di integrazione.

Come direttore scientifico del corso, mi piace concludere la valutazione di questa prima edizione, con una frase scaturita in modo chiaro da una delle esercitazioni del gruppo: insieme si può fare.