mercoledì 25 gennaio 2012

A proposito di J.Hillman

In occasione della commemorazione del grande J.Hillman, deceduto il 27 Ottobre 2011, voglio inserire qui questo mio studio su una delle sue più illuminanti opere,  “Revisione della Psicologia”  presentata al ciclo di seminari dell' Associazione culturale Crocevia  , nel Maggio 2005


                      IV Parte  : Disumanizzazione  e fare anima

                                              Il mondo infuso d’Anima


Per cominciare il mio discorso su quest’ultima parte di Revisione, sperando di potere concludere in  modo che tutto quanto è  stato già detto trovi una forma finale nell’immaginazione di ognuno, comincerò dalla mia immaginazione, perché non vi è dubbio che tutto quello che dirò è pur sempre filtrato dalla mia visione del pensiero di Hillman, delle sue parole, e dai sentimenti ed emozioni che le stesse hanno in me suscitato. Per quanto lo studio ha richiesto l’uso di tutte le mie facoltà razionali, l’aderenza al testo mi ha naturalmente imposto di mettere in opera anche la mia coscienza immaginale e quindi di fare anima.

Innanzi tutto, quello che mi ha colpito rileggendo il testo nel suo intero, è il rintracciarvi una sorta di cammino interno ( che non avevo notato nelle mie precedenti letture) , - si può accostare ad una partitura musicale, ad un copione teatrale , o forse anche all’opera pittorica di  Bosch o  alla prospettiva multipla di  Escher - : a me è apparso - in senso più filosofico -  una sorta di percorso che va dal particolare al generale , dall’uomo singolo all’uomo cosmico, dal personale al trans-personale, all’oltreumano o,  per dirla con parole più propriamente hillmaniane, dalla personalizzazione alla dis- umanizzazione. Questo è il cammino di pensiero che segue Hillman per presentare la sua psicologia  centrata sull’anima e non sull’uomo.

La visione complessiva dell’opera che stiamo esaminando (  e della quale mi è stato dato il compito di  commentare l’ultima parte ) mi fa intendere la  psicologia del fare anima come  una  psicologia del percorrere le profondità dell’Anima, di un incedere incessante tra le sue  diverse manifestazioni , spesso distorte e incomprensibili, immense e indecifrabili:  siamo sempre in terapia – sostiene Hillman-  nel senso che abitati dall’anima , toccati da essa, attraversati da essa, possiamo trasformare gli eventi in esperienze significative per la nostra vita interiore  e pertanto ogni vicenda, esterna e interna insieme , ci consente di attivare un processo di conoscenza di noi stessi e del mondo.  Processo che è possibile sempre anche attraverso le nostre malattie e le nostre patologizzazioni, come  ampiamente dibattuto nella seconda parte di quest’opera, in quanto anche i nostri sintomi ci consentono di guardare oltre , di vedere in essi  espressioni dell’anima. In questo senso  Hillman  si è espresso in modo decisamente critico verso tutte quelle forme (le più varie) di negazione o di rimozione della patologia, compresa  la terapia psicologica  intesa come pratica professionale, attribuendo ad essa il pericolo dell’abuso della patologizzazione, sostanzialmente trasformatasi in nuova religione  e nella quale l’asimmetria e la scissione dell’archetipo del Guaritore ferito conduce alla definizione negativa del sintomo da curare con un “trattamento”.

IL suo obiettivo è…liberare l’anima dal suo stato di alienazione nella terapia professionale fino a che non disponiamo di una visione della patologizzazione che, per cominciare, non necessiti di trattamento professionale.( pag.147)  Con  questa prospettiva , ripeto,  tutto ciò che ci accade  ( e qui si intende gli accadimenti della vita di ciascuno di noi, dai più semplici ai più complessi, fino ai più spaventosi)  poichè mette in moto profonde energie, potenze affettive,  immaginazioni mitiche, sentimenti primitivi, ci offre l’occasione di affacciare  il nostro sguardo immaginativo sulle vicende dell’anima  che sempre vanno  oltre il mero piano personale ( che è poi   il piano dell’Io) per  coglierne il significato più profondo. In una delle sue risposta nel recente epistolario curato da R.M. e L.T.  Hillman chiama la sua psicologia un “aprire le ostriche e pulire le perle, cioè recuperare e portare alla luce e indossare quotidianamente la vita dell’immaginazione, che non può redimere la tragedia, non lenire la sofferenza, ma può arricchirle e renderle più tollerabili, interessanti e preziose.”

   Torniamo dunque ad  Anima e alle sue numerose incarnazioni che via via vanno prendendo dimora  dentro di noi attraverso le vicissitudini quotidiane e con le quali possiamo intrattenerci immaginativamente,  accoglierle,  piuttosto che spiegarle, rimuoverle, interpretarle.  Anima –abbiamo detto-  è personificazione dell’inconscio, così come  sentimento di interiorità personale:  personalizza l’esistenza individuale, le dà valore. E ancora  “ incarna l’attività riflessiva, reattiva e speculare della coscienza. Sotto il profilo funzionale……opera come il complesso che mette in rapporto la nostra usuale coscienza con l’immaginazione…… ,essa è in pari tempo il ponte verso l’immaginale e l’altra sponda.”  (Pag.95 -96 idem).

….. “un individuo privo della sua figura d’anima non è un essere umano: E’ uno che ha perduto anima”

Perdere l’anima è per Hillman l’incapacità o l’impossibilità o il rifiuto ad entrare in contatto con la propria coscienza immaginale attraverso gli accadimenti interiori che, se è vero che costituiscono la nostra più profonda meità, sono anche il ponte per trascenderla. Poiché l’anima abita dentro di noi, ma anche fuori di noi, là, nel mondo. Ci preesiste e ci oltrepassa,  anche se ognuno di noi può conoscerla solo attraverso la propria esperienza personale, attraverso quel “coefficiente personale” che ci consente di entrare in contatto con la sua vastità.   Perché – come più volte ripetuto – non l’anima abita in noi, ma noi in essa. E se è vero che possiamo incontrarla nei nostri sogni come nei nostri sintomi,  nelle nostre immaginazioni  come nella nostra carne, tra le nostre più intime emozioni, sensazioni, dolori,  è pure vero che essa è fuori di noi,  ai confini della nostra soggettività, oltre l’Io e oltre il me.

E’ questo “andare al di là dei confini del me” l’oggetto di analisi dell’ultima parte di questa   re-visione della psicologia che Hillman propone, del suo modo di intenderla,  restituendole la sua più  intima essenza, per l’appunto l’Anima; e alla quale intende dare un solo obbligo: il vedere in trasparenza, il prendersene cura, il renderle  servizio.  Per far questo è necessario andare oltre l’Io e oltre il Sé, ed entrare in connessione con le forze che muovono non solo i nostri sintomi e le nostre afflizioni , ma  l’universo intero, e  che per quanto  intrecciano, animano  e sostengono le nostre esperienze personali,  non sono nostre.

Per farlo, proverò ad elaborare alcune affermazioni sulle quali ho già sostato a lungo con il pensiero e sulle quali intendo riflettere ancora insieme a voi, anche perché, ogni volta che ci torno su, ne intuisco una sfumatura nuova , ne intravedo un’altra forma e non mi appaiono mai come la volta precedente.

Partirò da questa :” L’anima ha estensioni inumane”.

“Estensione” è concetto che si rifà alla spazialità e alla temporalità, ad un contenitore, a dei limiti. Ma la natura dell’Anima non è riconducibile a dei limiti, nè spaziali né temporali: limiti insiti invece nella natura dell’uomo. Se parliamo di anima dobbiamo dunque andare oltre l’uomo.

Per una psicologia che si rifà all’umanesimo, che valorizza al massimo l’esperienza individuale come unico strumento per entrare in contatto con gli archetipi, che promuove il “fare anima”, questa affermazione appare pressocchè paradossale. Tanto più che l’inumano, pur richiamando gli dei come forze che sottendono i nostri impulsi così come le nostre idee, non fa capo ad  una religione. La psicologia archetipica non è una religione. La religione  prende gli dei (o il Dio) alla lettera:li letteralizza. La psicologia archetipica li tratta come figure simboliche, li immagina. Nella prima il rapporto con gli dei avviene attraverso la preghiera , il culto, il rito. Nell’altra è attraverso metodi psicologici quali il personizzare, il patologizzare, lo  psicologizzare. La religione rimanda allo spirito, la psicologia all’anima.  Entrambe però hanno bisogno di una fede. La fede nella realtà dell’anima. E l’anima ha per l’appunto estensioni che travalicano la nostra realtà soggettiva  e che,  pur attraversandoci,  o meglio ancora  transitando noi in essa, non ci appartiene.

Tale presupposto fondamentale , il fatto cioè che  tutto ciò che ci accade è governato da forze che non ci appartengono  perché non  sono umane,  libera almeno in parte le nostre azioni  dalla esclusiva responsabilità personale , proprio in quanto si riconosce che in  esse si muovono forze che vanno al di là di noi.  Riuscire a vedere così le nostre emozioni, se non ci libera ( e non ci libera)  dai travagli personali, ci mostra  dice Hillman  una diversa qualità di esperienza (pag 301).  I litigi in famiglia, gli entusiasmi degli amanti, le esplosioni in ufficio, hanno tutti dei retroterra profondi: epici, tragici o comici che siano, essi sono sempre mitici, incontenibili dalla vita e distanziati da essa.  

Le emozioni  appartengono agli archetipi, i quali agiscono in noi attraverso il centro emotivo del complesso.    Pur facendo strettamente parte della nostra esperienza personale , esse trascendono la storia e il luogo, sono “eterne”, come dice   Roberto Calasso nelle sue Nozze di Cadmo e Armonia, transpersonali, sacre:

……. un’enunciato mitico più che una proprietà umana.

Vorrei fare qui una breve digressione sulla presenza del senso tragico nella visione hillmaniana. Nel corso del dibattito attivato con il recente epistolario cui abbiamo già accennato alcuni  hanno avvertito nella sua opera l’assenza della tragicità, o per lo meno la sua perdita di spessore,  tanto da intravederne in qualche modo i tratti post-moderni ed edulcorati della New Age, oggi molto in voga secondo lo spirito del tempo, che cerca in tutti i modi di trarsi fuori dalla sofferenza superando il conflitto attraverso il recupero del”meraviglioso”.

Non  mi stupisce la reazione di Hillman stesso ad una di queste argomentazioni, tanto da farlo  sobbalzare. In realtà la tragedia  - risponde- è insita nell’anima stessa , e mai nei suoi scritti è rimasta esclusa la presenza delle afflizioni, del dolore, dei travagli: tutte espressioni   necessarie e inevitabili dell’anima. Forse il recuperarne la bellezza attraverso l’immaginazione, renderle espressioni immaginative, turba il senso etico di chi vuole vederla ancora sotto l’aspetto eroico della sconfitta o della vincita. Hillman propone l’attraversamento della vita e l’ accoglimento della tragedia che continuamente  la permea , nei tradimenti come nelle depressioni, nel cattivo seme come nella vecchiaia ( pag.62- 63 di Caro Hillman ), ma non con lo spirito eroico dell’Io combattivo, né con l’attaccamento nostalgico del pessimismo a tutti i costi, né con la fissazione del Senex sulla pesantezza dell’esistere.  Attivare l’immaginazione non  rende  i dolori dell’anima più leggeri, ma li approfondisce  e li immerge nello sfondo mitico dove solo forse possono  trovare un’altro logos e un altro senso al di là della vicenda concreta e personale.  

La psicologia ha sempre trattato il mondo delle emozioni  così come la sua patologia  rimanendo sul fondo personalistico, orientandosi verso la comprensione, la spiegazione, l’interpretazione, e non vi è dubbio che se il nostro fine è medico, cioè appartenente al mondo della cura,  questo modo di procedere  può essere d’aiuto. La terapia clinica ritiene i suoi pazienti responsabili di ciò che accade, li indirizza verso la scelta  migliore, è pertanto legata ancora ad una visione moralistica che presuppone una  capacità di scelta, la volontà di dirigersi verso l’una o l’altra strada.  Ma , in definitiva , anche la scelta si muove secondo  una prospettiva archetipica che privilegia l’uno al posto dell’altro , rimandando alla figura dello Sceglitore o del Riparatore,  soggetto che si pone come centrale  e che esercita la funzione  di scegliere  tra il bene e male. Ecco, Hillman vuole liberare la psicologia dal suo assillo moralistico, per il semplice fatto che anche gli atteggiamenti morali sono incarnati da un dio, e  ogni dio, ossia ogni aspetto della psiche, ha una sua morale. Ermes, come Ares, come Dioniso, hanno la morale relativa al principio che incarnano; così come anche l’amoralità rappresentata dal Briccone, da Caino o da Prometeo ha una sua prospettica archetipica e il suo principio morale.

Il punto di vista archetipico, insomma,  tenta di distogliere completamente la nostra concentrazione  monoculare dalla questione del bene e del male .

Come psicologi dell’anima dobbiamo andare oltre l’umano e il piano personale delle vicende affettive per  concentrarci sull’anima, uscendo fuori da quella “ristretta soggettività umanizzata” cui ogni terapia in qualche modo necessariamente  ci vincola (come sostiene a pag 202 in risposta a Zoia).

Pertanto Hillman , come filosofo e non come  terapeuta, critica duramente l’umanesimo moderno che  centrando il suo universo sull’Io e sulla fantasia monoteistica di una soggettività che sceglie e agisce , ha esaltato fantasie come   l’amore o il perdono o il sentimento : mezzi per giungere ad una presunta unità , redenzione o  superamento.  Tornando un momento indietro, al  suo secondo capitolo (pag.125-126), egli  ha già duramente criticato questa visione idealistica dell’umanesimo moderno , che definisce addirittura delirante, col suo  concentrarsi sull’aspetto più chiaro della natura umana, dove persino la morte diventa dolce, perde la sua ombra, …perché il suo fine è la trascendenza. Per trascenderla essa si lascia alle spalle tutto ciò che è più basso, vile, oscuro, giudicandolo un insieme di valori regressivi. Una psicologia semplicistica, che guarda con occhi innocenti  e che ignora del tutto la visione stoica e tragica dell’uomo esistenziale, irrazionale e patologico ( e in queste parole è forse la risposta più densa a chi gli contesta l’assenza di senso tragico).

Giungiamo allora alla seconda affermazione che consegue a questa analisi e che si compendia nell’enunciato :

La giusta misura del genere umano è l’uomo; quella della psicologia è l’anima”.

 Richiamandosi ancora una volta al Rinascimento, la psicologia  che Hillman  propone , mette al centro l’anima , non l’uomo, operando una distinzione tra psiche ed anima, termini molto spesso usati come equivalenti o sinonimi. Non è semplice cogliere questa differenza .I due termini infatti pur essendo intrinsecamente connessi, non sono identici. Qui vi propongo quella differenza che mi è sembrato di sapere afferrare: l’una (la psiche) è la funzione riflessiva dell’anima, individuale o collettiva che sia,  ha ancora a che fare con l’uomo.  L’altra (l’Anima ),  è indipendente dall’uomo e dalla coscienza che la riflette. La psicologia del Rinascimento - e si badi bene che il termine psicologia viene raramente usato in quei tempi - ci ricorda Hillman - comincia proprio dalla seconda,  dalla rivelazione dell’indipendente realtà dell’anima.  Essa esiste indipendentemente dall’uomo.  Nel Rinascimento la psiche è ovunque: religione, politica, denaro sono aree del riflettere psicologico. Il panpsichismo  è l’espressione filosofica del neoplatonismo al quale il rinascimento ha attinto. Uomo, natura, anima sono  tre termini connessi intimamente, ma l’anima, che è dentro l’uno e dentro l’altra, è anche al di là dell’uno e dell’altra.  Il mondo infuso d’anima è espressione della filosofia dell’immanenza di cui il pensiero di  Ficino  è portatore. L’anima per Ficino “congiunge tutte le cose, è il centro della natura, il termine medio di tutte le cose.” Perciò “il filosofare ficiniano è tutto e solo un invito a vedere con gli occhi dell’anima l’anima delle cose…..una spinta a tuffarsi nelle profondità della propria anima perché nella luce interiore tutto il mondo si faccia più chiaro.” (Pag.338)

Mettere al centro l’anima è una vera e propria rivoluzione in filosofia, in quanto fa sì che ogni pensiero, quindi lo stesso filosofare, abbia una implicazione psicologica,  trovi il suo fondamento nell’anima…..  La filosofia diviene un riflesso di quello che avviene nell’anima.

Questo situare l’anima in posizione centrale, nel pensiero come nella natura , come in qualsiasi esperienza umana , significa che essa regna in e tra tutte le cose , e per questo la filosofia di Ficino è stata chiamata la “filosofia dell’immanenza”.   

Questa visione aveva nel quattrocento un contenuto altamente rivoluzionario, forse solo pari all’impatto della psicoanalisi nel nostro secolo, in quanto le sue affermazioni danno a psiche l’onore di essere non solo oggetto di studio, ma soggetto di studio, annullando di fatto ogni distinzione tra soggetto e oggetto, relativizzando pertanto ogni visione ed ogni prospettiva, ed intaccando la superiorità assoluta della rivelazione cristiana. Questa è di fatto anche la sua modernità se pensiamo che la stessa in-distinzione è il presupposto fondamentale dell’attuale fisica quantistica.

Da questa centralità assegnata all’Anima da Ficino e dal neoplatonismo, così come dalla psicologia archetipica ,è necessario avanzare verso una ulteriore riflessione che mette al  centro la morte in quel particolare legame che essa ha con l’anima:  Persefone ed Ade. Qui la psicologia archetipica sembra inoltrarsi verso un altro paradosso: se Anima è archetipo della vita, come è concepibile questo suo legame con la morte? Questo discendere nelle profondità di Ade come si concilia con l’esaltazione della vita insita in quel suo viverla in profondità?  In realtà mettersi in contatto con Anima significa penetrare nelle profondità umbratili delle nostre riflessioni immaginali che noi attiviamo attraverso ogni esperienza soggettiva, ma contemporaneamente alla morte di  ogni accadimento reale e letterale, proprio  perché ogni accadimento visto con gli occhi di anima cessa di essere reale e diviene immaginale . Dalla prospettiva di Ade, cioè al di là e al di sotto delle nostre vicende umane, quando esse si sono già ritirate o concluse nella vita reale,  esse permangono negli occhi dell’anima e solo allora  diventano veramente reali. Ciò fa dire ad Hillman che

 noi siamo le nostre immagini.

Questa prospettiva , che intimamente  lega  morte e vita ,  riguarda solo l’Anima,  laddove  Morte non è più morte in senso medico, conclusione del ciclo vitale, unica e irreversibile , e Vita non è solo esperienza  letterale , ma sguardo che si inoltra nelle profondità degli inferi  simultaneamente alla vita di ogni giorno, allorché le vicende quotidiane diventano vicende psichiche.

                        Nel regno di Ade esiste solo psiche, tutti gli altri punti di vista                            svaniscono.

 Noi incontriamo Ade tutte le volte in cui i fatti concreti di ogni giorno svaniscono e cadono nelle nostre immaginazioni profonde, oltre il fatto che ha dato loro vita, quando veniamo rapiti dalla nostra coscienza usuale , afferrati e portati  verso il basso nel regno delle nostre emozioni e dei nostri patimenti, nel momento in cui ogni accaduto  assume una prospettiva diversa perché lo vediamo psicologicamente.  Vorrei qui aprire una parentesi a proposito di Pathos: pathos è termine che rimanda al subire qualcosa che proviene dall’esterno : un’offesa come una malattia , una notizia come una visione.  Non  necessariamente deve avere a che fare con la sofferenza, quanto con  qualcosa che ci mette in contatto con la nostra passività e con la nostra impotenza nel momento in cui  qualcosa  ci attraversa con intensità o eccesso.  Ecco: secondo me, questo  patire, guardato in trasparenza,  “attiva “in noi un processo omeopatico che agisce come rimedio  in quanto ci consente  fondamentalmente di non subirlo ma di trasformarlo.  Solo così il pathos cessa di essere solo sofferenza ma luogo dove si attiva lo  sguardo di Persefone, rapita alla sua normalità  e dove le immagini che si risvegliano ci portano nella realtà più intima dell’anima.  

Fino a che non ci risvegliamo a questa realtà intima , cioè fino a che la nostra coscienza illibata della realtà naturale ( Persefone) non viene stuprata  e tradita (pag. 349 ), fino a quando non ci apriamo alla prospettiva di Ade  noi rifiutiamo di ammettere che la realtà umana dipende interamente dalle realtà che accadono nell’anima  .. e che proprio in quelle noi siamo veramente reali. E inoltre  sostenere che noi non siamo reali    significa allentare la presa sulla vita  e sui punti di vista del mondo umano , sui fatti letterali e soggettivi, sugli accadimenti personali.

Pertanto, continua Hillman, ogni atto della coscienza è il riflesso d’una immagine fantastica che va molto oltre il letteralismo della nostra vita biologica, sociale o religiosa.

IL rifiuto di riconoscerci come irreali ci impedisce di psicologizzarci e di guardare in trasparenza.   Rifiuto che in definitiva nasce dal  rifiuto della nostra fragilità  che ci porta a costruire e ad aggrapparci a qualunque cosa possa puntellarci e renderci solidi. Rifiuto che porta anche la moderna psicologia umanistica a rivolgersi verso  fantasie di luce di autorealizzazione fondate sull’Io o sul  Sé, costruendo un uomo forte con un’anima fragile perché non capace di rivolgersi alla (sua)  natura mitica  e al suo eterno impulso ad uscire dalla vita.

L’Anima del Rinascimento, che Hillman riprende, non ha invece dimenticato l’ombra della morte e , nel benessere dell’Anima, ha creato questo strano matrimonio tra inumanità e anima. Può esserci - si chiede  Hillman stesso - un più acuto contrasto? La morale rinascimentale non divideva il fare anima dalla profonda inumanità e dai processi di patologizzazione presenti nell’anima stessa.

Nutrirsi d’immagini” significa  quindi potere  giungere all’altra sponda, non nel trascendente in senso spiritualistico religioso, ma “al di là del troppo e solo umano”

come dice Grazia Marchianò nella sua lettera al già citato epistolario, ridando alla capacità visionaria il suo potere di cura e lenimento della umane fatiche.

Non solo, ma ciò restituisce meraviglia alla vita –commenta Hillman  – oltre ad  un’accettazione più compassionevole delle  nostre necessarie limitazioni .

 Come se attraverso questa capacità “visionaria” della mente noi possiamo reggere ( e non in senso eroico) la nostra umanità.

Il paradosso dunque  si rivela terapeutico, capace di farci andare oltre i nostri stessi confini ed attaccamenti, donando  contemporaneamente  una grandiosità alla nostra semplice, unica individualità.

Questa quindi la re-visione della psicologia di Hillman, una visione che ci fa sognare, vivere profondamente ed andare oltre: andare oltre soprattutto a questa sua stessa visione  che, come tutto, bisogna sapere abbandonare e oltrepassare per entrare nei meravigliosi giardini di Anima.

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