Riflessioni sul “malessere organizzativo”
Anche la seconda edizione del corso di formazione per
operatori sanitari di cui sono stata organizzatrice e direttore scientifico
presso l’Azienda Ospedaliera ARNAS
Garibaldi di Catania si è conclusa con notevole apprezzamento da parte
dei partecipanti. Ancora una volta mi sembra inevitabile soffermarmi a fare
alcune considerazioni su quanto è avvenuto nei tre giorni di lavoro,
sottolineandone la diversità rispetto a quanto avvenuto nella prima edizione.
L’organizzazione del corso aveva inteso dividere gli
argomenti articolandoli su due aree precise : una prima area o sessione tesa ad
esplorare le problematiche più usuali
per la pratica medica, considerate però da una prospettiva psicologica e
indicando pertanto una riflessione analiticamente
approfondita riguardo a contenuti come la comunicazione
della cattiva notizia, o l’accompagnamento
nella terminalità o la modalità di
effettuare un triage attento anche
alla dimensione psichica e non soltanto strettamente medica . La seconda
sessione, più vasta rispetto alla prima anche in termini di tempi, ha voluto
invece dedicare la sua analisi all’assetto organizzativo, al clima ambientale e
al contesto entro il quale ordinariamente si svolge l’attività medica di
“cura”.
Entrambe le sessioni prevedevano una parte esperienziale e
pratica su quanto teoricamente esposto.
Lo scarto tra la prima giornata, inerente la dimensione clinica,
e le altre due inerenti la dimensione organizzativa, che nella prima edizione
aveva avuto una funzione catartica rispetto alle tensioni emotive esplicitate nella dimensione clinica, in
questa seconda esperienza si è posta da subito come spazio estraneo e poco interessante, come se l’organizzazione riguardasse in ogni caso “gli altri” e non in
qualche modo testo nel quale inscrivere il proprio contributo individuale. Se
questo era nella coscienza del gruppo il sentimento circolante, tuttavia lo
stesso non si sottraeva in alcun modo ai “compiti” proposti riuscendo a portare
a compimento quello che dichiaratamente credevano di non poter sapere fare. E’
attraverso questo gioco di negazione e partecipazione, di malcelate
manifestazioni di malcontento, che il gruppo ha messo progressivamente fuori non soltanto l’evidente malessere
vissuto quotidianamente nel proprio
ambiente di lavoro, ma il bisogno di
entrare di più a comprenderne le
dinamiche per potersi fare parte attiva
nei processi decisionali, nella definizione delle regole e in quant’altro possa
riguardare la propria parte
nell’insieme. Certo ne deriva lo scoraggiamento circa l’impossibilità di
modificare tout court la cultura organizzativa radicata nel nostro paese, ma
forse la consapevolezza (anche questa antica)
che il silenzio e la delega servono solo a rafforzarla può essere la
spinta a cambiare qualcosa nella cultura dell’operatore che, con più dignità e
coscienza, può sentirsi parte di un organismo vivo e in continuo
cambiamento, piuttosto che di una
macchina vecchia e malfunzionante.
In ultimo, oltre alla precisa richiesta di ulteriori momenti formativi che
lavorino in tal senso, è emersa con
chiarezza la necessità di una cura adeguata per venir fuori dal malessere condiviso dagli operatori sanitari
dell’azienda, dove il narrare e il raccontare
diventa strumento di cambiamento e che in questo piccolo, ma ricco, momento formativo si è avuta occasione di fare.
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