venerdì 30 novembre 2012

Il corpo in pezzi (tra medicina e arte)

 Ecco l'intervento che ho portato oggi all'interno dell'evento
 STOP allo 048 degli Oggetti, Mostra Internazionale d'arte contemporanea sul tema del riciclo.



Mettere insieme arte e malattia in un contenitore che ha come nucleo fondamentale il tema del riciclo non è stato facile, ma è certamente stato molto invitante per chi, come me, ha dedicato la maggior parte della propria vita professionale in un ospedale senza mai rinunziare alla passione per l’arte . Mettendo insieme queste due anime, ho provato a tracciare le mie considerazioni a proposito di un argomento che credo oggi non si possa e non si debba ignorare.

 Non solo l’arte infatti, ma anche la medicina, è oggi in una fase di “mutazione” in quanto ha a che fare con la tecnologia e con la visione che la stessa ha prodotto nella vita dell’Uomo. L’influenza che la tecnica esercita nella nostra esistenza è oggi alla portata di tutti anche se non sempre è accompagnata da una riflessione critica altrettanto diffusa. Senza volere in alcun modo utilizzare gli schemi di giudizio propri dell’etica, né le categorie  dell’estetica,  le considerazioni che porto qui, si muovono  dalla osservazione di come la tecnica abbia modificato la concezione della Vita  in vista della funzione piuttosto che dello scopo concependo pertanto un organismo (sociale, collettivo, individuale) come una macchina.  Le macchine infatti hanno come scopo il loro funzionamento, l’efficacia, la produttività, ma sono cieche al senso, che ha a che fare con il bisogno di attribuire significato alle esperienze  e a cercarne  il perché. In una società fondata sulla funzionalità, la macchina diventa la protagonista prima e i valori cui fa  riferimento sempre più si discostano dalle emozioni e dai sentimenti , allargando la scissione dell’uomo entro se stesso.

Scrive Umberto Galimberti nel suo “ L’uomo ai tempi della tekne”: In realtà la tecnica ha sostituito la natura che ci circonda e costituisce oggi l'ambiente nel quale viviamo. Noi però ci muoviamo nell'ambiente-tecnica con i tratti tipici dell'uomo pre-tecnologico che agiva in vista di scopi, con un bagaglio di idee proprie e di sentimenti in cui si riconosceva. Ma la tecnica non tende a uno scopo, non apre scenari di salvezza, non svela verità, la tecnica "funziona".

Nella società tecnologica ci lasciamo guidare dalla ragione che scaturisce dal “si può fare” e quindi dal “si deve fare”, mettendo spesso da parte il senso di quel potersi fare. E’ questo l’aspetto più inquietante dell’uomo tecnologico, soprattutto in ambiti come la medicina che, malgrado il suo indubbio progresso, sconfina nella visione dell’uomo- oggetto, dell’uomo- macchina fatto di pezzi da aggiustare o da sostituire, a scapito della sua integrità.

In un contesto come quello suggerito da questo evento, il riciclo,  che è “l’arte” di riutilizzare gli scarti per dare agli oggetti  nuova vita, ri-creando un nuovo oggetto, come possiamo intendere l’attuale “arte” medica che , nel considerare il corpo come aggregato di pezzi, come macchina funzionale  a vivere il più a lungo possibile, non si chiede abbastanza quale sarà la qualità di questa ri-creazione? Alla stregua di un oggetto che è bene conservare  a lungo  dandogli nuova forma, il corpo-oggetto della tecnica , luogo assoluto della sua soggettività, come potrà reagire (emotivamente, psicologicamente) a questa  nuova forma?

Questi sono gli interrogativi che mi sono posta nel preparare questo incontro, la cui tematica parte dalla considerazione che la malattia è disfunzionale per una società che vorrebbe essere immune dal male, e che pertanto la rifiuta, la scarta,  in quanto contrasta con i valori dell’efficienza e della produttività che gli sono propri.

Fondare una ecologia della salute, significa quindi non dimenticare che l’uomo appartiene alla natura (in quanto corpo) e allo spirito ( in quanto mente )  e non alla tecnica, e che quest’ultima ha senso solo nella misura in cui aiuti l’uomo e non lo domini con  possibilità  spesso  distruttive  e non ri.creative di  quell’ambiente interiore nel quale l’Uomo si riconosce.

Voglio riflettere su alcuni esempi (tratti dalla rete) che fanno riferimento alla concezione dell’uomo come aggregato di pezzi e alle sue conseguenze.

“Un chirurgo e altre quattro persone sono comparse  davanti alla corte nel centro della Cina con l'accusa di aver aiutato un ragazzo a vendere un rene per acquistare un iPhone e un iPad 2. Stando a quanto riportato oggi dal China Daily, Wang Shangkun, 18 anni, si trova oggi in gravi condizioni di salute dopo essersi sottoposto lo scorso anno a un espianto illegale……..
..Il rene è stato venduto per 150.00 yen”


 “Ha donato al figlio prima il midollo osseo e poi, dopo pochi anni, un rene. Salvandogli la vita per due volte. Protagonista una mamma di 55 anni .  Il figlio, grazie al midollo ricevuto dalla madre, nel corso degli anni acquisisce le caratteristiche genetiche del genitore per il proprio sangue. Adesso il paziente ha ricevuto un rene dalla madre, ed il sistema immunitario del ricevente, che in realtà è quello derivato dalla madre con il trapianto di midollo osseo, non riconosce come diverso il rene trapiantato. Questo gli consentirà di evitare la terapia antirigetto con tutti i rischi che comporta.”

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“Vuole vendere un rene per pagare le bollette. L'annuncio shock è di una 65enne di Roccastrada (Grosseto),  La donna, vedova e invalida al 90%, non sa come pagare le bollette e neppure come mangiare.


Emerge chiaramente la visione di  chi  tratta il proprio corpo ( o parti di esso) come merce di scambio, come oggetto da vendere, come mezzo per raggiungere scopi apparentemente più appetibili. È chiaro che non mi riferisco alla madre che salva il figlio, ma al ragazzo che vende il rene per  l’iPhone. E’ proprio questa la differenza che dà un valore completamente diverso alle due azioni di fatto identiche : lo scopo, il “ senso” di una stessa azione. E che dire della donna  costretta dalla necessità  a vendere il proprio rene per pagare le bollette? Questi  esempi, pur differendo nelle finalità,  appartengono tutte allo stesso modo di intendere il  corpo. Se l’ideologia che sta alla base è quella del corpo –oggetto, riciclabile o riproducibile, la scienza e la tecnologia diventano strumenti di distruzione  e non di progresso. Prendo come esempi due film recenti che aprono scenari possibili ma terribilmente inquietanti: mi riferisco a “Non lasciarmi”di Mark Romanek dal libro del giapponese Yshiguro e “La pelle che abito” di Pedro Almodovar. In entrambi il corpo viene  “disumanizzato” , svestito e svuotato delle sue emozioni e dei suoi sentimenti,  per divenire laboratorio di ricerca, di onnipotenza, di delirio. Il corpo dunque diventa un prodotto della cultura dominante ossessionata dalla bellezza, giovinezza, dalla quantità piuttosto che dalla qualità. Dalla medicina estetica che manipola, altera e plastifica la nostra immagine, alla lotta alle malattie, all’accanimento terapeutico per allungare la vita, la medicina odierna sembra trattare un uomo senza Anima, alla ricerca  dell’uomo perfetto, senza difetti né rughe, nella presunzione di potere sconfiggere la vecchiaia e la morte. Sembra questo il cancro della nostra società, incapace di rispettare i cicli naturali, i passaggi obbligati. Scrive  Umberto Galimberti: “ La scienza è per noi ormai il reale. Il suo punto di vista ….col suo sguardo anatomico che lo seziona (il corpo) come si seziona qualsiasi oggetto, ci è divenuto così familiare che oggi ciascuno di noi non fa alcuna fatica a rinunciare  alla propria esperienza ( il corpo vissuto) e a svalutare il proprio punto di vista sul corpo, per adottare il punto di vista della scienza.”

In realtà c’è una grande differenza tra il corpo vissuto (leibe) e il corpo della scienza (korper): il primo è il corpo che appartiene al mondo della vita, è soggettivo e fondato sul sentire: il secondo è quello che appartiene al mondo della scienza, è oggettivo e astratto. La diffusione del cosiddetto pensiero scientifico e l’adozione acritica del suo punto di vista, ci ha espropriato dal corpo e dalla nostra soggettività che sempre più rimane ai margini  sia quando trattiamo il mali interni  (classificati in sintomi ) che quelli esterni,  sempre facenti riferimento ad un modello, socialmente imposto. Il corpo finisce per appartenere più agli altri che a noi stessi: alla medicina, alla cultura, all’estetica, alle nosografie, alle classificazioni. Questo corpo estraneo, manipolabile e modificabile, diventa vendibile , come  qualunque cosa. Diventa pezzo da eliminare, diventa corpo- spazzatura…

Guardiamo queste due scene ……


Se buttare via un oggetto è dichiararlo a morte, e il suo riutilizzo auspicabile e fonte di creatività e innovazione, trasporre questo in medicina e al corpo umano è molto pericoloso. Il corpo è soggetto, non oggetto. Noi siamo il nostro corpo, e non abbiamo un corpo. La nostra  soggettività consiste nella fondamentale unità tra la nostra identità corporea e quello che attraverso essa esperiamo. Anche la malattia è un’esperienza, a volte anche necessaria, non soltanto distruttiva o inutile.

Attraverso la malattia noi scopriamo altre parti di noi, risorse spesso insospettate, capacità che non pensavamo di avere. Non è un elogio alla malattia, ma l’accettazione della sua esistenza che non può essere eliminata del tutto malgrado i miglioramenti  e i progressi della scienza. E’ più pericoloso e illusorio credere che si possa eliminare la malattia e la morte che accettare la sua realtà, conviverci, imparare da essa , piuttosto che rimuoverla o ignorarla o, al contrario, rifiutarla.

Tra i rifiuti della nostra società, c’è certamente la malattia. Pensiamo a quanto ancora oggi sia difficile parlare della infezione da HIV. La sigla si associa a una altra terribile verità:  l’Aids. Per chi ha lavorato con questa realtà sa bene che il tabù che l’accompagna è ancora fortemente presente malgrado i progressi che la scienza ha fatto per contenerla, per evitare l’epidemia, quella che in altri paesi poveri è ancora una piaga sociale enorme. Ma non è ancora del tutto esaurito il contagio emotivo , la reazione di intolleranza che ancora suscita. Ancora oggi non è facile trovare chi tranquillamente dichiari questa malattia. Dai tempi del famoso film Philadelphia, la sigla HIV rimanda a quella che ancora viene considerata la “immondezza” sociale, la monnezza da non considerare come parte di noi, ma da scartare, da evitare . I pregiudizi che l’accompagnano sono ancora enormi, e chi vive la realtà Aids tace, si nasconde, se ne vergogna. Ma parliamo dello 048: esenzione ticket dell’altro grande tabù,  il cancro. Si, certamente rispetto alle metafore di una volta ( brutto male, male oscuro, lunga malattia….ecc.) oggi se ne parla più chiaramente e in termini scientifici ( melanoma, carcinoma ecc ).
Ma  resiste ancora una sorta di velo , di riserbo, quasi fosse una vergogna o una colpa che inesorabilmente viene associata alla morte, o perlomeno alla possibilità della morte.  In questa nostra società la Morte è la verità più rigettata. Il tentativo di rimuoverla è lo sforzo collettivo più accanito ed inutile. E’ il vero cancro della nostra società. Viviamo nell’illusione di eliminarla, o almeno di posticiparla il più possibile attraverso tutto quello che la tecnologia medica ci mette a disposizione, macchine, nutrizioni artificiali, sostituzioni di valvole, organi, arti meccanici. In un mondo che tende al controllo, la realtà morte genera un’ansia insopportabile, un’angoscia malamente tenuta a bada, che esplode in attacchi di panico,depressioni, voragini vertiginose entro il quale il nostro essere si perde, si disorienta, si smarrisce. La Morte è una realtà che la società moderna non accetta , non inserisce nel suo “programma” di vita, non entra nella educazione. E’ una realtà della quale disfarsi. Invece di dargli un senso ( religioso, filosofico, psicologico) la Morte è stata svestita di ogni significato che per l’uomo costituisce sempre un valore, un sostegno, una ragione. La sua rimozione l’ha resa più terribile, e quando accade, lascia oggi più sgomenti, svuotati,  come se la Vita ci avesse traditi. La morte viene vista come un “incidente” del percorso  ideale o razionale o sanitario, o “ come un accidente  contro cui la vita è andata a cozzare” (Galimberti pag.98  Il corpo).

In questa visione che oggi rifiuta il senso esistenziale della vita e quindi della sua conclusione, bisogna recuperare il significato e non solo la ragione clinica della malattia e della morte. Uso ancora  le parole di Galimberti:

“Non si muore per usura organica, ma perché la morte è immanente alla vita; non sopraggiunge come accidente possibile, ma forma con la vita la stessa trama che la costituisce e la distrugge.”

Il rifiuto ideologico   della malattia e della sofferenza che sottosta alla cultura contemporanea, ci rende di fatto più vulnerabili e più fragili, non ci educa a sostenere i momenti difficili della vita,  ma nutre in noi la pretesa che il guasto si possa e si debba aggiustare, che i mezzi disponibili siano sempre necessariamente utilizzabili e che la medicina  sia il luogo della delega  e non della cura. Dietro questa “salute “ a tutti i costi, dietro a questa rimozione collettiva del dolore e della morte, come anche della sua spettacolarizzazione,  si nasconde la vera “malattia” della modernità, la sua finzione e la sua nevrosi.

A questo proposito , e per concludere,  vorrei fare cenno all’opera del dr.Gunther von Hagens : artista austriaco , medico anatomopatologo  che utilizza i corpi umani “plastinati” per far riflettere sui temi della morte e della salute. La tecnica della “plastinazione”, inventata e brevettata da von Hagens, permette di conservare tessuti e organi del corpo umano, sostituendo ai liquidi corporei polimeri di silicone. In una recente mostra l’anno scorso a Roma sono stati presentati   più di 200 organi e sezioni insieme a 20 corpi umani interi plastinati, lasciati al dottore “in donazione” da altrettanti individui ( pare che siano 13 mila in tutto il mondo questi donatori di corpo).  Il titolo della mostra   Body Worlds    che certamente  fa discutere  è forse ancora una volta un modo per indurre a destinare il proprio corpo all’immortalità attraverso la trasformazione (tecnica) delle proprie parti anatomiche in opera d’arte. Sul valore artistico di tali opere non mi pronunzio. Mi induce a pensare che chi ne ha fatto donazione all’artista-medico, ha certamente vissuto una fantasia di eternizzazione, un tempo affidata alla religione, oggi affidata alla tecnica.
In una intervista fatta all’autore sul senso delle sue “creazioni” gli è stato chiesto

Lei farebbe plastinare il suo corpo?

Naturalmente! Cosa potrebbe succedermi di meglio che continuare a vivere dopo la morte? Il mio corpo contribuirebbe agli studi sull’anatomia, cosa che io ho fatto tutta la vita.

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