Un
buon incontro, nella stanza della terapia, avviene fin dal primo
momento. Quasi sempre anche prima: al telefono o via email, al primo
contatto per fissare un appuntamento. La voce, la risposta ad una
richiesta, sono già elementi che predispongono all'incontro vero e
proprio. Ne rimangono le prime impressioni, le prime informazioni.
Poi
finalmente ci si vede. Ad accogliere la persona che ha chiesto
l'incontro non è solo il terapeuta, ma lo spazio dove tutto ciò
avviene. E' la stanza, i suoi colori, le sue luci, la sua atmosfera.Adesso ci si incontra con lo sguardo, con la stretta di mano, con l'ascolto e l'attenzione. Così inizia il racconto.
Quasi
sempre al primo incontro è possibile cogliere un certo imbarazzo,
una lieve quota di ansietà: come cominciare, da dove cominciare? E'
importante ogni cenno, ogni sorriso, ogni interpunzione per fare in
modo che la narrazione inizi, non importa da quale punto della
storia. Ma che inizi. Poi il suo svolgimento verrà gradualmente a
scorrere, ad andare avanti e indietro o restare al presente, spesso a
confondersi, a ingarbugliarsi. Saranno le domande che il terapeuta
comincia a porre, il suo sottolineare qualche informazione, i suoi
commenti. Ma soprattutto il clima che riesce a creare, la risonanza
emotiva che riesce a trasmettere.
Nei
primi incontri si consolida la conoscenza. Non solo del problema, ma
delle reazioni, del linguaggio, delle modalità espressive che
accompagnano il motivo del disagio vero e proprio , della capacità
di comunicazione. Si comincia a delineare un quadro, a partire dalla
cornice , poi lo sfondo, e fare emergere via via i tratti, le
figure, i particolari, i colori, le sfumature. La stanza intorno
assiste a questo particolare processo di conoscenza: lo avvolge, ne è
parte integrante, testimone di una intimità sempre più profonda.
Quello che viene definito setting è
lo spazio, il tempo, la durata in cui quell'incontro avrà luogo.
Ma che relazione è quella terapeutica? Si dice che sia
una relazione di aiuto. Ma non basterebbe un compagno, un amico, un
padre? Perchè è così speciale? In realtà è una relazione
complessa nella quale si intrecciano aspetti affettivi, emotivi,
erotici, intellettuali che continuamente rimandano a ulteriori
relazioni senza che queste ultime possano mai essere sostituite del
tutto dalla prima: per quanto questi aspetti siano presenti e vivano
nella stanza della terapia, tuttavia non si può essere del tutto
amici, nè madri o figli, né padri o maestri, né innamorati o
amanti. Eppure, come in una sequenza di specchi a tratti deformanti,
in ogni relazione terapeutica si muove tutto questo. Ne è la linfa,
il nutrimento, il motore.
E il terapeuta? Chi è questo mentore che
ascolta, prende, sostiene, domanda, rielabora , restituisce? Di sé
parla poco, quasi niente a volte, lasciando forse intendere di essere
sapiente, perfetto, illuminato, arrivato. Arrivato dove? Come afferma
Jung, nessuno può andare al di là di dove sia giunto esso stesso.
E' difficile definire il suo ruolo. Ogni terapeuta porta in campo non
solo la sua preparazione e le sue conoscenze, ma ancor di più la sua
esperienza. Ognuno ha il suo modo per farlo, ognuno è lì con la sua
personalità, il suo carattere, le sue ferite, i suoi travagli: il
buon esito non è per nulla garantito. E' un lavoro lungo e faticoso
che coinvolge entrambi. Così come lo stesso terapeuta può essere
amabile e comprensivo per l'uno, per l'altro potrà essere arrogante
e distruttivo. Dipenderà da cosa si cerca in lui. Dalle aspettative
e dagli investimenti affettivi. Dall'intreccio di fattori
intellettuali ed emozionali, dalla fiducia, dalle pretese, dalle
illusioni. Sono questi gli aspetti che in terapia giocano un ruolo
fondamentale, più ancora di quanto esplicitamente verbalizzato.
Essendo io una donna, sono stata vissuta molto spesso
come una madre accogliente e benevola; altre volte come una madre
fredda e distante. In entrambi i casi ero sempre io: ma se per l'uno
ero il contenitore accogliente dove rifugiarsi, per l'altro ero lo
specchio di esperienze passate, l'ombra di relazioni infelici. A
volte sono stata confusa con un'amica, scambiata per una sorella,
desiderata come un'amante.
Si, perchè poi c'è l'Eros. Ritengo che in ogni terapia
una certa quota di eros sia indispensabile. Senza amore per la
conoscenza, senza attrazione per il lavoro introspettivo, senza una
buona dose di umana simpatia l'uno per l'altro, la terapia diventa
luogo di esercitazione intellettualistica, senza spessore e senza
anima. Non può esserci terapia se non c'è desiderio.
Desiderio di cambiare prospettiva, di entrare nei territori
sconosciuti di sé stessi, di mettersi in gioco e di confrontarsi con
l'Altro. L'altro in sé, l'altro fuori da sé. Ciò che è veramente
terapeutico nell'incontro tra uno psicoterapeuta e il paziente è la
relazione stessa. Una relazione dove entrambi sono attori di un
processo che non conoscono, e di cui faranno entrambi parte. Certo è
necessario che il terapeuta abbia in sé la capacità di riconoscere
ciò che sta accadendo, che abbia la competenza di sapere come
muoversi. Ma inevitabilmente ne sarà coinvolto, senza che questo
coinvolgimento travolga il setting, ma piuttosto lo sostenga, lo
consolidi. Se il paziente prova dei sentimenti di qualunque natura
verso il terapeuta è inevitabile che questi non soltanto li debba
accettare, ma che debba sostenere le proprie reazioni, i sentimenti
che in lui suscitano. Si chiama controtransfert e, come il
transfert, è di fondamentale importanza per la relazione di
cui stiamo parlando. A volte accade che questo accadimento emotivo
vada oltre la terapia stessa. L'innamoramento tra paziente e
terapeuta è un tema discusso e dibattuto. Della sua eventualità,
ogni terapeuta è consapevole. E' a conoscenza anche della sua
frequenza, molto maggiore di quanto si pensi. In una situazione
intima come quella della stanza della terapia i sentimenti umani non
possono certo essere sospesi, ma semmai amplificati.
L'idealizzazione, la fantasia, l' immaginazione favoriscono
l'attrazione, il desiderio di vicinanza anche sessuale.
E' la gestione di questi sentimenti che può
essere produttiva per la terapia o, al contrario, determinarne la
conclusione. E non sono solo le “regole” del setting che possono
risolverne la complessità , ma la scelta cosciente e motivata
del comportamento da seguire. C'è un'etica professionale che detta
le norme da seguire, ma c'è la pressione del desiderio con la quale
ogni terapeuta si troverà a combattere. La risoluzione del conflitto
determinerà il destino della terapia che spesso in casi del genere
volgerà al suo termine.
In altri casi è l'aggressività ad entrare in campo. Il
terapeuta diventa oggetto di attacchi di ogni genere, di svalutazione
o di ostilità manifesta. Quando le resistenze a mettersi in gioco
sono pesanti, quando il cambiamento fa paura ostacolandolo in ogni
modo, è facile proiettare sul terapeuta la rabbia per l'inefficacia
della terapia, per l'incapacità a raggiungere gli
obiettivi. Anche in questo caso il terapeuta è sottoposto alla
carica delle reazioni emotive proprie ed altrui, sostenendole con il
giusto distacco, interpretandone le motivazioni, senza che questo non
comporti uno sforzo di non poco conto. E anche in questo caso , non è
facile ricondurre i sentimenti ostili all'agire terapeutico,
sostenendo l'inevitabile senso di frustrazione che gli stessi possono
generare, senza che questi atteggiamenti determinino la conclusione
del rapporto.
Ho voluto tratteggiare un po' quello che è il rapporto
terapeutico, il suo delinearsi e il suo complicarsi. Vorrei
concludere con un altro argomento anch'esso complesso: il suo
termine.
Nel
saggio Analisi
terminabile o interminabile
S. Freud afferma che un'analisi non si completa mai, ma che ad essa
si può porre termine se ricorrono determinate condizioni. Ad esempio
se certi obiettivi sono stati raggiunti, o se la persona sente che
non può andare oltre, ma ha raggiunto quel certo grado di equilibrio
che le consente di continuare da sola. In realtà ad un certo momento
la figura stessa del terapeuta si interiorizza producendo nel
paziente una funzione critica che lo aiuta ad andare avanti.
"l'analisi
deve determinare le condizioni psicologiche più favorevoli al
funzionamento dell'Io"
Freud
cit.
Sono
questi i casi “risolti” nel senso che, seppure incompleta (perchè
l'analisi dell'inconscio è effettivamente interminabile),
ha tuttavia raggiunto dei risultati soggettivamente auspicabili,
fermo restando che una buona terapia continua ben oltre la
conclusione degli incontri, ed è sempre possibile riprenderla in
ulteriori momenti nei quali il supporto del terapeuta appaia
necessario. Pertanto una buona
terapia rimane nella memoria del paziente come parte integrante della
propria storia. Altra cosa è la conclusione di una terapia dovuta
alle resistenze irrisolte e alla decisione unilaterale del paziente
che non intende più continuare gli incontri. Per quanto il terapeuta
ha il compito di interpretare il contenuto delle
resistenze
che sono alla base di tale decisione, non può certamente violentare
la libertà personale di chi non è più disposto a continuare il
lavoro terapeutico. Alla base delle resistenze c'è sempre il rifiuto
del cambiamento, l'attaccamento ai propri atteggiamenti, alle proprie
convinzioni, in definitiva alla propria malattia.
Sono questi i casi in cui una terapia non ha prodotto quella funzione
trasformativa che è il fondamento di ogni relazione di cura.
Per
concludere, tornando al tema di questa breve esposizione, la
relazione terapeutica, pur nella diversità dovuta ai molteplici
riferimenti teorici, è una relazione dalla cui complessità deriva
il suo svolgimento, il suo fare,
la sua finalità trasformativa, aggiungendo che la stessa modifica
sempre entrambi i suoi protagonisti, perchè ha a che fare con i più
profondi sentimenti umani.